Bello o brutto? Il rebranding è un’altra cosa…

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19 Gennaio 2017

E’ sempre molto delicato procedere alla modifica di un logo conosciuto in tutto il mondo. Nel calcio lo è ancora di più, ma la Juve è sulla strada giusta: il risultato finale non dipende dall’estetica, bensì da una strategia complessiva

Sperando che nessuno si offenda, i numerosi pareri su quanto sia bello o brutto il nuovo logo della Juventus sono pressoché irrilevanti. E anche tutta l’ironia dilagante sui social network, fin dal momento della sua presentazione a sorpresa, non fa altro che sottolineare la riuscita mediatica dell’operazione. E’ un po’ come accade per le celebrity, che iniziano a sentirsi veramente tali soltanto dopo che qualcuno ne fa una parodia, anche se molto irriverente.

La “J” stilizzata ideata da Interbrand sta monopolizzando le discussioni degli appassionati, riuscendo persino a far passare in secondo piano la brutta prestazione della squadra a Firenze. E’ inevitabile che ciò avvenga, trattandosi del cambiamento di un brand che è, allo stesso tempo, il più popolare ed il più impopolare dello sport italiano. Se proviamo ad analizzare la questione da una prospettiva leggermente diversa da quella delle chiacchere da Bar Sport tra juventini e antijuventini, si capisce meglio come mai il fattore estetico non sia l’argomento di maggior interesse.

Al di là dell’ovvia soggettività dei giudizi, lo scopo di un logo è ben diverso. Ci sono brand di straordinaria efficacia che non sono per nulla appealing sul piano grafico ed altri invece artisticamente impeccabili, eppure altrettanto misconosciuti. Per esprimere un giudizio, bisogna seguire dei parametri differenti. Un logo deve essere allo stesso tempo semplice, ovvero di facile memorizzazione e riproducibilità, ma anche distintivo della realtà che simboleggia, senza il rischio di ingenerare confusione. Deve inoltre evocare un’emozione o un sistema di valori e riuscire a farlo nel tempo, senza cedere alle fuggevoli mode grafiche del momento. Infine, deve essere adeguato al tipo di attività svolta ed al target che essa si prefigge.

Quest’ultimo è il tema più discutibile. In linea generale, bisogna trovare la giusta coerenza tra il design ed il tipo di contesto e mercato in cui si opera. Già al primo sguardo, si capisce bene come il brand Mercedes punti ad un target “alto” e sofisticato, mentre quello di Giochi Preziosi sia ovviamente indirizzato ai bambini: lo stile grafico è appropriato alle rispettive realtà e invertirlo darebbe risultati negativi.

Nel caso della Juventus, bisogna riflettere sul tema della tradizione, che per gli sportivi riveste una profonda importanza e che ha infatti alimentato alcune perplessità rispetto a questo specifico rebranding. Ogni cambiamento di logo, in qualunque campo, comporta dei rischi. Nel calcio, in più, bisogna stare molto attenti a non compromettere quei valori identificativi che sono alla base del legame fideistico che lega il club/azienda ai propri tifosi/clienti. Accosto volutamente questi termini, per sottolineare con una forzatura come sia rischioso equiparare ogni operazione di marketing, sorvolando sulle specificità del contesto.

Un mese fa, Eurocalcio24.com si è occupato delle problematiche legate ai rebranding calcistici, prendendo spunto da quanto fatto dall’Atletico Madrid. In quel caso, la società spagnola ha fatto imbestialire i suoi fans, arrivando persino ad invertire la posizione che l’orso, simbolo della città, occupava sul suo stemma ufficiale.

Con l’operazione “Black and White and More”, la Juventus non ha commesso lo stesso errore. La “J” è profondamente legata alla sua identità e non solo per la stracitata frase dell’Avvocato Agnelli (“Ogni volta che leggo sul giornale una parola con la J mi commuovo”), ma perché sono pochissime le squadre del calcio mondiale ad avere la stessa iniziale e nessuna vanta un blasone nemmeno lontanamente paragonabile a quello dei campioni d’Italia.

Non solo. Nella storia del club, l’iniziale è stata a più riprese utilizzata come marchio distintivo, sia sulle divise da gioco dei tempi passati che, in epoca più recente, per tutta la variegata produzione di abbigliamento e gadget per il tempo libero. La trasformazione del logo è avvenuta a valle di un percorso molto più lungo, che ha fatto spiccare la “J” su altri elementi dell’articolato mondo bianconero.

L’house organ del club “Hurrà Juventus”, fondato nel 1915, è il più antico magazine ufficiale di una squadra di calcio. Si chiamava ancora così quando, dal 2009 al 2012, mi è capitato di esserne il Publisher. Poco dopo, la rivista ha cambiato la testata in HJ, anticipando una svolta che sarebbe stata seguita anche dal canale tematico, che da “Juventus Channel” è diventato “JTV”. Analogamente, oggi la società bianconera va giustamente fiera del “JMedical” e del “JMuseum”, segni evidenti del fatto che questa svolta, per quanto sorprendente agli occhi degli esterni, sia stata meditata e coltivata nel tempo con discrezione.

La Juve degli anni ’40, con la “J” sul petto

Si tratta, comunque, di un’operazione rivoluzionaria e quindi rischiosa. E’ la prima volta in assoluto che uno “stemma” calcistico… non è più tale: così come presentato, il nuovo brand della Juventus non pare destinato ad essere rinchiuso nel classico “scudetto” da apporre sul petto, ma si allinea allo stile dei marchi commerciali, comparendo libero da contorni delle sue due versioni, in positivo e negativo, che giocano efficacemente sui colori sociali del club.

Dopo 120 anni, sono spariti del tutto i riferimenti alla città di Torino. Lo scopo evidente è renderlo più seducente per i nuovi mercati esteri, target dichiarato di Andrea Agnelli. Questa scelta è coerente con l’intenzione di competere con i club inglesi e spagnoli, il cui seguito internazionale rappresenta gran parte del gap economico nei confronti della Juve e del resto del calcio italiano. Semmai, mi pare discutibile la rinuncia alle tre stelle, con le quali la società non ha un bellissimo rapporto.

Fino al 2004, le stelle (due) apparivano in bella mostra non solo sulla maglia, ma anche sullo stemma. Il rebranding di tredici anni fa, benché molto più lieve di quest’ultimo, le ha fatte sparire dal logo e anche la collocazione sulla divisa è spesso stata infelice, scivolando addirittura alle spalle. Conquistata la fatidica terza stella, alla quale peraltro suo zio Gianni teneva moltissimo, Andrea Agnelli non ha voluto esibirla sul petto, per via dei dissapori con la Figc in seguito a Calciopoli. Tale scelta ha suscitato malumori sia da parte dei tifosi che del vecchio sponsor tecnico e infatti giustamente ora le stelle sulla maglia ci sono. Ma non su questa “J” nuova di zecca, almeno per ora.

Non è detto che non vi sia un ripensamento da qui al 1 luglio, quando il brand ristilizzato comincerà ad adornare anche le divise da gioco della prossima stagione. L’importante è che, soprattutto in questa fase di coabitazione tra nuovo e vecchio, non vi siano sovrapposizioni come quella che si è verificata quando il Milan ha apposto il logo di “Casa Milan” sul petto dei giocatori, al posto dello stemma tradizionale, per poi fare marcia indietro. Un brand può cambiare, ma finché c’è è sacro e intoccabile.

Alla fine, non è certo il valore estetico di un brand a determinarne il successo, ma il complesso di significati che va a simboleggiare. Il paragone più efficace è quello con le parole, dei significanti la cui musicalità ha senza dubbio la sua importanza, ma che in fondo contano per il significato che veicolano.

E se del nuovo logo della Juve si è occupata anche la CNN, parlandone come del futuro del calcio, vuol dire che l’operazione è partita col piede giusto.

TAG: juventus, logo, Marketing
CAT: calcio, Media

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