Casciavit made in China: come può cambiare la brand-identity del Milan

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11 Settembre 2016

In quella che sembra un’interminabile transizione dal controllo della famiglia Berlusconi a quello della cordata cinese, la pazienza dei tifosi è messa veramente alla prova. In attesa del famigerato “closing” e di conoscere fino in fondo l’identità dei nuovi proprietari, i frequentatori di San Siro si chiedono se il passaggio di mano comporterà il rafforzamento tecnico di cui la squadra ha un disperato bisogno per tornare a vincere, dopo cinque anni di vacche magrissime.

Comprensibile. Con uno sguardo più ampio sulla situazione, viene però anche da chiedersi quali saranno le nuove scelte in materia di comunicazione. Il Milan è “anche” uno dei brand italiani più conosciuti nel mondo e nessun prodotto può fare a meno di una coerente strategia di posizionamento mediatico. A maggior ragione, ciò vale per il calcio, nel quale il marketing ruota intorno ad un forte e profondo legame affettivo tra squadra e tifosi, che va ben oltre le comuni relazioni tra un prodotto ed i suoi utilizzatori. Emozioni, identificazione, senso di appartenenza: se il tifoso è considerato soltanto un cliente, il rischio di sbagliare completamente le mosse è elevatissimo.

La prima questione da definire riguarda, ovviamente, l’identità italiana del club, un tema che riguarda anche l’Inter e che nel recente passato è stato sollevato polemicamente dalle tifoserie di blasonate squadre inglesi come Manchester United e Liverpool, passate in mani straniere. Da questo punto di vista, credo che mantenersi fedeli alla tradizione locale significhi anche valorizzare l’apertura nei confronti dell’altro che da sempre caratterizza Milano: non per nulla, le due squadre meneghine cittadine si chiamano una “Internazionale” e l’altra come la propria città, ma in lingua inglese, quella dei fondatori.

Se tra la gestione di Moratti e quella di Suning c’è stato il cuscinetto rappresentato da Thohir, il salto da Berlusconi alla Sino Europe e ai suoi sodali, rischia però di essere traumatico. L’intenzione di riportare in società alcune bandiere va accolta con favore, anche per l’indiscutibile valore dei profili sotto esame. Albertini è una persona colta, intelligente e preparata, che oltretutto ha avuto modo di affinare l’arte della diplomazia e della politica sportiva da vicepresidente della federazione. Altrettanto interessante è la candidatura di Costacurta, che però pare molto ben inserito a Sky. Lo stesso si può dire per Boban, per il momento impegnato nel prestigioso ruolo di vicesegretario della Fifa, accanto a Infantino. Certamente sarebbe affascinante il ritorno di Paolo Maldini, anche ripensando al poco edificante trattamento riservatogli da una parte della tifoseria, nel giorno della sua ultima partita a San Siro. Se vi fossero le condizioni per riportarlo in rossonero, sarebbe anche il modo per chiudere una ferita non ancora rimarginata.

Qualche incertezza sull’identità societaria si era già manifestata nelle ultime stagioni, prima della cessione, ad esempio quando Barbara Berlusconi ha stranamente deciso di applicare tre diversi stemmi alle maglie della squadra. Nella stessa stagione, le casacche del Milan sono state alternativamente fregiate dal logo ufficiale del club, dallo scudo crociato simbolo della città e dal simbolo tondeggiante di Casa Milan: insomma, una sorta di schizofrenia comunicativa, soprattutto considerando che la sacralità del brand è all’abc del marketing. Il rebranding è un’operazione delicatissima, alla quale ricorrere solo in situazioni di necessità e con la massima cautela. Siccome la figlia del capo non ha certo bisogno che sia io a spiegarle queste cose, è lecito pensare che un po’ di confusione alberghi nelle confortevoli stanze di via Aldo Rossi.

brands ac milan

La triplicazione del brand rossonero

A proposito di Casa Milan, l’ubicazione della nuova sede rappresenta un altro spunto di riflessione. E’ del tutto evidente che il trasferimento da via Turati era legato al progetto di costruire un nuovo stadio nella contigua area del Portello. Ora che l’idea è tramontata, dopo la sollevazione popolare di numerosi residenti, il tema-stadio torna d’attualità anche per via della scelta di Marco Fassone come nuovo a.d. rossonero. Avendo avuto il piacere di lavorare con la Juventus (ero publisher di “Hurrà Juventus”) durante la costruzione dello Stadium, ricordo bene l’alta considerazione nei confronti di Fassone per il ruolo svolto nell’operazione, che oggi rappresenta un fiore all’occhiello. Il suo successivo passaggio all’Inter e ora al Milan non credo possa essere slegato dai progetti riguardanti lo stadio (o gli stadi) di Milano. Archiviare l’idea di uno stadio di proprietà, in società con l’Inter o per conto proprio, sarebbe antistorico. Mi limito a questa considerazione tecnica, mentre delle possibili scelte sul futuro di San Siro preferisco parlare in separata sede, trattandosi di interesse pubblico (lo stadio è del Comune) ed avendo il sottoscritto un ruolo nella pubblica amministrazione del Municipio 7, quello dove sorge il Meazza.

Abbiamo solo accennato alla politica, questione che però torna con veemenza pensando al salto triplo insito nel passaggio da Berlusconi alla nuova proprietà, della quale – se le informazioni giornalistiche non sono fuorvianti – farà parte anche il Governo cinese. Potrà sembrare una forzatura, ma nella storia del calcio milanese sono profondamente incise anche le appartenenze sociali che per diverso tempo hanno caratterizzato le due squadre locali: l’Inter con un seguito più aristocratico e dal rigoroso D.N.A. indigeno (da qui il soprannome “Bauscia”), il Milan più radicato nelle classi popolari, tra immigrati ed operai (“Casciavìt”). Questa contrapposizione tradizionale si è sciolta quasi del tutto nel corso di tre decenni nei quali il Milan ha contribuito alle fortune politiche di Berlusconi, mentre l’Inter è stata nelle mani della famiglia Moratti, notoriamente schierata su posizioni più progressiste. Ciò non di meno, il cambiamento in atto rappresenta l’occasione per un riposizionamento identitario da parte di entrambi i club, da guardare con estremo interesse.

In tema di secolarizzazione (non stiamo forse parlando di fede?) sarà interessante osservare anche il rapporto con la folta comunità cinese di Milano, una realtà pulsante, produttiva e molto bene integrata nel tessuto sociale, con una forte presenza di esponenti di seconda o terza generazione, ormai milanesi a tutti gli effetti. Allo stesso modo, va ripensato il rapporto con la comunità in senso lato, ovvero con le iniziative sul territorio di tipo sociale ed anche le modalità di ingaggio delle numerose società di calcio dilettantistico con cui le due big collaborano.

Mi rendo perfettamente conto che agli occhi del tifoso tutte queste considerazioni possano apparire come sterili sofismi da parte di chi vive di comunicazione. Da uomo di sport, mi sento di garantire che invece è proprio da queste opzioni strategiche che poi derivano le scelte che più interessano agli appassionati.

Puntare su giovani italiani, alla Lapadula, per costruire un progetto di lungo termine oppure dare la caccia a big internazionali già affermati, per provare a vincere subito? Sono decisioni che si possono fare scientemente solo dopo aver capito che tipo di club si vuole essere e che narrazione darne. Sempre, ovviamente, che vi siano risorse economiche sufficienti per potersi permettere di scegliere.

Spogliatoi di Inter e Milan

Persino gli spogliatoi di San Siro comunicano il posizionamento dei due club: moderno e superconfortevole quello del Milan, tradizionale e nostalgico quello dell’Inter

TAG: ac milan, italian brand, Marketing
CAT: calcio, Media

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