Le nostre pagelle: è stato comunque un Aru da 8,5
Con la kermesse finale sui Campi Elisi, vinta in volata dall’olandese Dylan Groenewegen in una cornice di pubblico più modesta del solito, si è chiuso […]
Fabio Aru esce dal Massiccio Centrale e dalla seconda settimana del Tour senza la maglia gialla che aveva conquistato sui Pirenei, ma con qualche chance in più da spendere sulle Alpi. L’incidente di Rodez, che ha visto il capitano dell’Astana perdere al traguardo 24 secondi dal vincitore Michael Matthews (che sta correndo un Tour degno del Sagan 2016) è stato imputato dalla maggiorparte dei commentatori all’inconsistenza dell’Astana. Un giudizio che è da un lato ingeneroso e dall’altra poco ponderato.
Credo più semplicemente che Aru, così come ha molti pregi, a oggi ha ancora dei limiti, il primo dei quali è di ordine squisitamente tattico e ha a che fare con una certa difficoltà nel leggere la corsa. Mi spiego meglio: la tappa che si chiudeva a Rodez ricalcava l’arrivo della tredicesima frazione del Tour 2015. In quell’occasione Greg Van Avermaet aveva battutto Peter Sagan. Dunque un traguardo adatta a cacciatori di classiche. Terzo si era piazzato Jan Bakelants, a 3 secondi. Quarto John Degenkolp a sette. Con lo stesso tempo si era classificata la maglia gialla Chris Froome, che aveva preceduto Nibali, Contador e Valverde, tutti con lo stesso tempo. É il genere di arrivo su cui gli uomini di classifica non fanno fatica a stare davanti, e anzi possono tentare di guadagnare qualche secondo sui diretti rivali. Proprio il fatto che il pronostico fosse aperto ai vari Van Avermaet, Matthews, Gilbert, Naesen, Boasson Hagen, ha prodotto questa volta nei chilometri immediatamente precedenti lo strappo (diciamo dai meno 10) una forte trainata dei treni delle diverse squadre, quasi una volata anticipata.
Qualcuno ha notato che a cinque chilometri dal traguardo Aru fosse mal posizionato in gruppo, nella seconda parte del plotone, isolato dai compagni. E ha immaginato che la Sky a quel punto abbia fatto scattare una “trappola”, portando Froome in posizione estremamente favorevole per giungere coi primi. Si tratta di una ricostruzione fantasiosa, che sui quotidiani è stata addirittura accompagnata dalle battute che si sarebbero scambiati i luogotenenti della Sky. In realtà Froome doveva essere esattamente dove era, e dove era già stato nel 2015. E se anche a 5 km dall’arrivo sei indietro, puoi sempre produrre lo sforzo necessario a risalire il gruppo. Faccio un esempio: all’inizio della salita è scattato Naesen, ma subito è stato rilevato in testa da Gilbert, che a mio parere con evidenza è partito troppo presto. Forse pensava all’Amstel Gold Race del 2015, persa perché non si era riuscito a togliere di ruota Matthews. Di fatto il belga a duecento metri dall’arrivo era ormai allo scoperto da troppo, e per l’australiano, per lo stesso Van Avermaet e per Boasson Hagen non è stato difficile sopravanzarlo. Andando a leggere il profilo Twitter di Philippe si scopre però che ritiene di essere rimasto senza benzina perché ai -4 Km era ancora molto indietro. Dunque a suo dire ha pagato non tanto la volata lunga, quanto lo sforzo fatto prima di essa per risalire il plotone.
Ho l’impressione che Aru abbia fatto esattamente il contrario: sovrastimando le sue forze, non si sia impegnato a risalire il gruppo, per poi scoprire che su di una rampa del genere è meno forte di chi corre le classiche e forse anche di qualcuno dei suoi avversari diretti in classifica. Gli è mancato qualcosa? Certamente. Si sarà alimentato bene nel finale? Questo non lo sappiamo. La squadra ha delle colpe? Non più di tanto. La formazione dell’Astana al Tour è di fortuna, questo lo si sapeva. Nel corso della stagione il team kazako ha dovuto affrontare la tragedia della morte di Michele Scarponi, che sarebbe stato capitano al Giro e spalla di Aru al Tour. Ha registrato l’infortunio molto grave capitato a Tanel Kangert al Giro (dove il forte passista estone si è rotto omero e spalla contro un paletto fissato su di uno spartitraffico), e infine alla Grande Boucle ha perso per una caduta il vincitore del Delfinato Jacob Fuglsang. Lo stesso Dario Cataldo ha dovuto abbandonare la corsa. Gli altri sono più o meno dei comprimari, come ne esistono in tutte le squadre, Sky esclusa. Ma anche se in gara vi fossero stati il danese o l’estone, difficilmente avrebbero potuto pilotare Fabio oltre lo striscione dell’ultimo chilometro. Dove poteva arrivare meglio posizionato contando anche solo sulle sue forze.
Nella tappa che ha oggi attraversato il Massiccio Centrale, terminando a Le Puy-en-Velay si è invece rivisto lo schema di corsa prevalente di questo Tour. Fuga in partenza di molti elementi e uomini di classifica che sulle salite si confrontano in un duello diretto, con pochi o pochissimi comprimari. La squadra di Bardet e quella di Froome restano in tal senso più solide della concorrenza, ma non al punto da poter fare la differenza, se è vero che quando oggi il keniano, messo sotto pressione proprio da un attacco della AG2R La Mondiale, ha avuto l’ennesimo problema meccanico, è stato il quinto in classifica Mikel Landa a fermarsi ad aspettarlo, mostrando grandissima lealtà al capitano e smontando definitivamente ogni sospetto di fronda, ma anche dando una precisa indicazione del fatto che persino la Sky in certi momenti deve far lavorare da gregario il proprio capitano in seconda, in assenza di aiuti più pronti. Aru può insomma e deve correre da qui a Parigi, e soprattutto sulle Alpi, da solo. Imparando a tessere alleanze trasversali, inventate sul campo, provvisorie e instabili.
La tappa odierna, che di fatto ha sancito l’uscita definitiva di Quintana dalla classifica, ma che al di là della vittoria del redivivo Bauke Mollema (che dopo aver fatto brillantemente classifica al giro qui ha corso le prime due settimane in sordina, ma che torna buono per le vittorie parziali nella terza) non ha detto moltissimo (sì, Daniel Martin ha guadagnato 15 secondi sui rivali), è il preambolo a un giorno di riposo carico ancora di incognite. Chi saprà crescere nella terza settimana? Crediamo Alberto Contador, che però è un po’ indietro nella generale. Qual è il limite di tenuta di Uran? Impossibile dirlo, da troppo tempo non corre a questo livello. L’unica certezza è che in teoria Uran e lo stesso Froome possono attendere la cronometro del penultimo giorno a Marsiglia (che però è solo di 22 Km), mentre Bardet e Aru devono attaccare sul Galibier mercoledì o sull’Izoard giovedì. Sulle spalle del francese ci sarà la pressione di un intero Paese. Non dimentichiamo che dopo il 1989, quando Fignon perse in maniera rocambolesca la corsa nella cronometro finale sui Campi Elisi, nessun transalpino ha più sfiorato la vittoria (il Tour del 1997, in piena epoca doping, sul piano statistico, a sindacabilissimo parere di chi scrive è fuori dalla storia del ciclismo, al pari di tutte le edizioni dal 1996 al 2006). Aru invece può correre con ben altra leggerezza. Non ha più la maglia gialla, e non è lui a dover toglierla a Froome. Dovrà essere attentissimo a sfruttare la rivalità AG2R-Sky, e a mettere a frutto la sua superiorità in salita su Uran e Martin. La prima delle due tappe alpine in particolare è durissima, con Croix de Fer e Col du Telegraphe. E a 2600 metri di altezza i valori cambiano radicalmente: chi in queste prime due settimane ha dato troppo rischia di perdere decine di minuti. Di fronte a cui i trenta secondi di Aru a Rodez o i 20 di Froome qualche giorno prima a Peyragudes sembreranno un’inezia.
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