Il cinema politico di Ettore Scola

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20 Gennaio 2016

Ettore Scola solo qualche mese fa  andò ai funerali di Pietro Ingrao. Era un comunista, se ne deve desumere. Un trinariciuto della più bell’acqua. In questi giorni del trionfo di Zalone e di polemica strisciante contro il cosiddetto cinema di sinistra (vedi l’intervista al suo produttore Pietro Valsecchi al “Foglio”) che per definizione sarebbe conventicolare, afflittivo, supercilioso, non nazionale e non popolare, in verità si prende un nemico di comodo, non so, forse qualche redattore zdanoviano de “Il manifesto” o un Enrico Ghezzi cinefilo rinsecchito, o non so chi altri. Stiamo ai fatti. Quando Ettore Scola dipinge il ritratto eterno dell’italiano traffichino, immorale, amorale, l’arci-italiano insomma – mi riferisco al Tognazzi dell’episodio “L’educazione sentimentale” (soggetto e sceneggiatura di Scola) de “I mostri” di Dino Risi (1963) -,  quel padre che insegna al figlio a mangiare tre brioches e a pagarne una, l’ “educatore” al sentimento nazionale che passando davanti al Parlamento lo chiama, con un cachinno da eterna antipolitica, il “Pappamento”; o se pensiamo all’immenso Ettore Scola che si confronta con le biografie ideologiche in quel film che non si finisce mai di ammirare che è “C’eravamo tanto amati”, 1974,  o le idee tout court come ne “La nuit de Varennes”, “Il mondo nuovo”, 1982; o che “scava” impietosamente nell’abiezione morale del sottoproletariato (“Brutti, sporchi e cattivi”, 1976), o nei tic e tabù degli stessi  intellettuali di sinistra (“La terrazza”, 1980), ebbene, che tipo di sinistra viene fuori?  Una sinistra intellettuale – e Scola fu quasi intellettuale organico al PCI e ministro ombra per le arti cinematografiche-, che sa osservare i vizi nazionali e li sa esporre nei modi specifici del cinema e dell’intrattenimento popolare, con intelligenza atrabiliare, senso della misura artistica, e riscontro di “cassetta” per soprammercato.  Altro che “La corazzata Potëmkin”, per parte sua un capolavoro assoluto e in “C’eravamo tanto amati” finemente citato, con la carrozzina che cade per le scale di Trinità de’Monti.

Tendenziale ma non tendenzioso Scola

Si dice talvolta con ammirazione: quell’artista non  si schierò mai pubblicamente per questo o quel partito. Insomma: restò au-dessus de la mêlée come diceva Romain Rolland, sopra la mischia, in una dolce levità, senza pensieri espliciti sulla società e sul mondo, figurarsi i fastidiosi ed espliciti pensieri politici. Ma siamo sicuri che questo comportamento sia per se stesso il più giusto, il più adottabile? È vero che non puoi imporre come obbligo il comportamento opposto – prendere parte, stare nella mischia – perché i temperamenti sono un fatto individuale e rispondono a zone grigie dello spirito che solo il soggetto può esplicitarvi nelle sue motivazioni più profonde. Eppure io sto dalla parte delle persone schierate, di chi prende posizione. Anche dalla parte sbagliata, si intende. Drieu La Rochelle o Céline stavano dalla parte sbagliata. Ma anche Bertolt Brecht stava dalla parte sbagliata. E anche Gianni Rodari. E anche Garcia Lorca. E anche Ettore Scola.

Una volta, ai tempi di Croce, si discettava di tendenzialità e di tendenziosità. Si diceva: occorre essere tendenziali, ma non tendenziosi. È un principio accettabile, perché stabilisce una scelta, una tendenza, ma suggerisce di avere lo sguardo periscopico. Scola stava dalla parte delle tre “p” di Baudelaire. Per il poeta francese la critica (e la letteratura) deve essere: Passionnée, Partiale, Politique. Lungi dal mostrarsi imparziale o obiettiva essa si deve sporcare le mani, scambiarsi con le cose del mondo, di questo mondo. Si tratta, però, di scoprire il più ampio arco d’orizzonte a partire dal proprio appassionato, politico, parziale angolo visuale.

Appassionato, parziale e politico Scola

Ora, sicuramente Appassionata, Parziale e Politica  può essere definita tutta la filmografia di questo straordinario artista del nostro Novecento. Sì, Ettore Scola era un intellettuale comunista. I comunisti in quegli anni dell’immediato dopoguerra erano gli unici che avessero un progetto di uomo e di società. Posso dirlo? Era un progetto sbagliato, che se si fosse realizzato ci avrebbe portati tutti a fare la fila per una sardina sotto sale oppure finire in una specie di incubo mediterraneo come quello tropicale di Cuba oggi. In ogni caso avevano un progetto pedagogico disperato: volevano “rifare” l’italiano. La Chiesa da secoli ci aveva rinunciato e aveva dapprima inseguito indi seguito l’italiano-tipo irretito da logiche magico-sacramentali. Volete i miracoli cari fedeli? E quando le Madonne, sotto elezione, cominciavano a  piangere si giravano teologicamente dall’altra parte oppure incassavano il consenso triangolando con il potere politico democristiano.  Volete continuare a farvi i cazzi vostri come avete sempre fatto? Si non caste tamen caute ammoniva i fedeli Santa Madre Chiesa. Questa, non dimentichiamo, era l’Italia del dopoguerra, quando Scola cominciava a fare le prime prove satiriche sul “Marc’Aurelio”. Da allora, i democristiani prima e Berlusconi dopo si sono guardati bene  dal volere inibire comportamenti collettivi distruttivi e asociali, tutt’altro li hanno sempre assecondati e incoraggiati. Seguivano il popolo più che precederlo.  I comunisti no, i comunisti fissamente e fessamente erano normativi, erano fermi e ferrei sul progetto di società futura ed ecco perché avevano lo sguardo fisso sulla realtà effettuale degli italiani, che a loro non  piaceva, che loro intendevano correggere anche con il riso castigatorio.

L’incontro con le masse popolari

I nostri intellettuali già nel ‘700 erano cosmopoliti e per nulla nazionali e popolari. Arbasino diceva che la nostra cultura è “exclusive”, colta e iperdistillata, fatta, a partire dal Seicento, da abatini incipriati alla Metastasio,  lontana dalla frequentazione dei bru bru, e Gramsci, che fino a oggi resta l’intellettuale italiano che più di ogni altro si è interrogato sulla natura della nostra cultura, anche popolare, sulla funzione e i comportamenti dei nostri intellettuali,  aveva inventato, per spiegare il tipo di  produzione dei letterati italiani, la categoria del “mandarinismo”; insomma gli intellettuali italiani si erano formati nelle corti, e come la casta dei mandarini dell’antica Cina – gli unici che conoscevano tutti quei maledetti ideogrammi- pensavano a  intrattenere nobili e principesse, e del popolo  non sapevano e non volevano saperne nulla. Le grandi culture continentali (anche quella francese, penso a Zola, uno scrittore “popolare e di sinistra”, binomio che in Italia si è formato solo con i grandi sceneggiatori e registi comunisti, primo fra tutti l’ amato Ettore Scola) sono nate con le grandi masse e hanno prodotto pensando ad esse, come destinatari naturali, inventandosi il genere popolare del romanzo che noi abbiamo saltato preferendogli il melodramma.

Da noi l’aggancio con il popolo avviene con la lanterna magica del cinema

Ed Ettore Scola ne è il più illustre e lucido esponente. Il romanzo parlato e visivo della commedia all’italiana, nazionale e popolare insieme, riesce con lui,  al massimo grado,  a selezionare il registro appropriato, che è connaturale agli spettatori Peninsulari dai tempi di Bertoldo: lo stile basso, comico che in Scola assume  venature melanconiche da “grottesco triste”. E finalmente incontra le masse. L’approccio è urticante e pedagogico ad un tempo, simpatetico perché non vuole montare in cattedra, ma pronto con la bacchetta a indicare i vizi, le inadempienze, le incompletezze civili dei connazionali. E Scola sceglie per il suo progetto visivo le facce “rabelaisiane” di Manfredi, Gassman, Satta Flores, Fabrizi (sua la battuta “Chi ha vinto la battaglia con la coscienza ha vinto la guera dell’esistenza”).   D’altronde non puoi fare la sophisticated comedy con la faccia di un popolo che usciva dalla fame che s’era sparsa nelle campagne come nelle città dai tempi della pace di Cateau-Cambrésis deformandone i tratti, piegati dalle smorfie  dell’arte di arrangiarsi, della furbizia, del cinismo.

Uno sguardo cattivo

Ettore Scola ce le restituisce intatte e caricaturali ad un tempo quelle facce  in “Brutti, sporchi e cattivi”, 1976. Un film feroce, spietato. Il film, che a me popolano, uscito da ambienti non molto dissimili  di quella borgata romana, fece molto male, da morirne, ma incitandomi a trovare il varco di fuga da quel mondo. Mi colpì nell’intimo Scola con il referto quasi positivistico, lombrosiano,  del bassomimetico e sordido ambiente del sottoproletariato romano post “Accattone”.  Qui il grande regista amplifica e conduce alle ultime conseguenze visive alcuni temi dei “Mostri” (l’episodio del borgataro che con i soldi ricevuti per comprare le medicine se ne va allo stadio).

Nel libro su Scola (a cura di Stefano Masi, Gremese 2006, p.57) leggo che il grande regista  voleva proporre una sorta di prefazione  a Pasolini che avrebbe dovuto dare le sue impressioni sull’evoluzione del sottoproletariato romano in apertura di film. Dubito che Pasolini avrebbe infine  accettato anche se aveva dato l’assenso di massima, riservandosi comunque di visionare in anteprima la copia di lavorazione del film, che non avvenne per via della morte che lo colse nel novembre del 1975. Il film uscì qualche mese dopo infatti. Difforme è la visione del Lumpenproletariat tra i due intellettuali e registi. Pasolini era l’intellettuale gidiano che trovava nel sottoproletariato qualche forma residuale – rispetto alla perversione della modernità – di innocenza o di salvezza, qualcuno avrebbe detto con locuzione anni ’70,  “dei supplementi d’anima”. Vi  vedeva, nel popolo, Ninetto, ossia una risorsa sessuale, ancora pura, incontaminata. Breve: il suo sguardo sui borgatari romani non era dissimile da quello di Norman Douglas sui calabresi o von Gloden sui siciliani.  Scola, invece, è feroce in questo film fino all’autolesionismo che non so quanto rispondente a una logica simpatetica di partito, voglio dire del documentarista ufficiale del PCI e del Festival de l’Unità (1973), il ritrattista consentaneo del cosiddetto “popolo di sinistra”. In questo film mostra invece impietosamente tutta l’abiezione dei borgatari, le tare, i sordidi vizi;  non assegna loro alcuna nobiltà né iconografica, né morale, né soteriologica. Li dipinge con graffiante cattiveria per quel che sono: sporchi, brutti e cattivi: tel quel, dei brutti bruti. Posa Scola  su questo mondo uno «sguardo»  cattivo, scorticapelle, senza possibilità di riscatto o salvezza. È una umanità, quella ritratta, pervertita e sconcia, non angeli caduti ma proprio demoni imbruttiti dal lungo ristagno negli ultimi gironi dell’inferno sociale.  Opera terribile che porta all’estremo lo sguardo acuto e impietoso  sulla iconografia proletaria intrapreso fin dai tempi di “Dramma della gelosia, tutti i particolari in cronaca” (1970).

Sulla traccia dello Scola “politico”, nella cui curvatura ho voluto ricomprendere il ritratto di questo regista che ieri ci ha lasciati, si situano il suo capolavoro assoluto “C’eravamo tanto amati”,  ma anche “Il mondo nuovo” e “La terrazza”, oltre quella intensa ed elegiaca storia di amore sullo sfondo della grande Storia (e della politica) che è “Una giornata particolare”.

“Sta sempre in cattedra come tutti i falliti!”

Così Manfredi a Satta Flores in “C’eravamo tanto amati”. Ma c’è un film più bello di questo? Film polifonico e corale, una sorta di “Illusioni perdute” di una generazione che a partire dalla lotta partigiana fino all’Italia degli anni ’70, ci restituisce gli itinerari di vita di un gruppo di amici, dei loro litigi, inganni, del loro reciproco affetto. Il portantino comunista Manfredi (una straordinaria e intensa prova di recitazione la sua), lo spietato palazzinaro Gassman e il patetico cinéphile Stefano Satta- Flores (“Nocera è inferiore perché ha dato i natali a gente come voi!”) e una dolce Stefania Sandrelli alle prese con la difficoltà del vivere e l’amore conteso di questi deliziosi maschi pasticcioni. Un film di oltre 40 anni fa, eppure una pellicola che più passa il tempo e più viene voglia di porre tra le teche dei capolavori assoluti del cinema italiano di tutti i tempi, e che non si fa che vedere e rivedere non appena possibile, in loop abbacinato e con le pupille isoconiche degli innamorati persi, dopo averlo visto al cinema in diretta negli anni della meglio gioventù. Dolce perdersi nella sue ampie volute narrative, dimentichi di se stessi e del mondo, nella propria dimensione di spettatori attoniti davanti a tanta bellezza cinematografica, e intenerirsi e commuoversi come davanti al film della vita.  Adorabile e immenso Ettore Scola! cantore di un Paese in cui  c’eravamo tanto amati, ma anche armati (come chiosava parodicamente Arbasino).

Ricordo infine “Il mondo nuovo” (1982) dove mette in scena un gruppo di intellettuali fin de siècle (Settecento) usando l’artificio di “Ombre rosse” di John Ford, ossia una carrozza in fuga, dove carica Restif de la Bretonne, il poligrafo stampatore di romanzi porno e utopistici –  è lui l’inventore sia della parola “pornografia” sia della parola “comunismo”, ma ogni illazione da parte vostra circa il collegamento dei due termini è respinta en avance; l’illuminista radicale Thomas Payne, l’autore del pamphlet programmatico “I diritti dell’uomo” a cui si ispirerà la costituzione americana e il vecchio, cadente, disilluso, schnitzleriano, Casanova interpretato da un Mastroianni imparruccato e dotato di nei posticci.  È un film didascalico sul retaggio della Rivoluzione francese e sulle illusioni delle ideologie. Ma Scola non vi scopre le sue carte, si ferma a segnare con le immagini il “mondo di ieri” delle idee forti, forse presago della perdita di presa sulle coscienze del suo e del nostro tempo.

 

 

 

 

TAG: ettore scola
CAT: Cinema

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