
Milano
La nuova peste di Milano
Per un tempo ormai piuttosto lungo, Milano è sembrata potersela cavare egregiamente e così ha dimenticato di riflettere su se stessa. È tempo di cambiare registro e ripoliticizzare il modo in cui interpretiamo i processi di produzione della città.
Conviene tornare a pensare Milano. Per un tempo ormai piuttosto lungo, è sembrata potersela cavare egregiamente e così ha dimenticato di riflettere su se stessa. Sommersa da agiografie imbarazzanti, più di recente è stata fatta oggetto di critiche triviali. È passata dall’essere il “place to be” al ritrovarsi “place not to be”: due caricature speculari, cui la città si è accomodata, diventando un pupazzo.
Per un verso, il racconto del miglioramento si è giovato di ampie evidenze. La città veniva da decenni grigi, segnati da processi di dismissione, blocchi decisionali, Tangentopoli, interventi di riconversione di aree ex industriali in centri commerciali, celebrati come successi da uno stile di governo che assumeva a modello la buona gestione del condominio. Mortificata, le succede di scoprirsi piena di segnali di futuro. Le straordinarie energie della città si svelano, favorite da una governo che finalmente le riconosce. Sono sperimentazioni sociali con capacità progettuali sofisticate, segno di una città che si rimette in marcia.
Alimenteranno il racconto del “modello Milano”; ma così definite si trasformano in prodotto di marketing. L’innovazione, divenuta canone, smarrisce la capacità di generare apprendimento sociale. Ridotta a sinonimo di novità, si associa a rigenerazione, termine che promette un taglio con il passato. Attorno a questa interpretazione, si consolida una policy community che trasforma il nesso innovazione-rigenerazione in fattore di produzione del mercato urbano.
A questo punto, il racconto del peggioramento ha modo di imporsi. Descrive una città dove gli sperimentatori sociali sono, a seconda dei casi, servi, utili idioti o complici della gentrificazione. Vi sarebbe in atto una perversa strategia di “grande sostituzione”, funzionale alla deportazione della classi popolari a favore di ceti affluenti, una specie di “piano Kalergi” messo in opera da un consolidato urban regime, composto da amministrazione comunale, sviluppatori, innovatori sociali. È un racconto che si propone come disvelamento di una verità occultata dalla narrazione “dominante”. Al centro della trama c’è un classico: l’eterna lotta tra rendita e pianificazione urbanistica, per cui la prima, quando il pubblico è asservito agli interessi privati, avrà sempre la meglio sulla seconda. La soluzione è rimettere al centro “il piano”, che regolerebbe i processi di trasformazione urbana garantendo l’interesse pubblico, se il ciclo neoliberista non ne avesse fatto strame.
In questo senso, il racconto del peggioramento è speculare a quello del miglioramento: mentre quest’ultimo promette il futuro come palingenesi, il primo riconosce nel passato una età dell’oro. Futuro e passato sono le figure evocate per legittimare due racconti d’accatto.
Il problema però è che l’esistenza di un’età dell’oro è assai incerta. Le ricerche sul sistema della pianificazione urbanistica nell’area milanese mostrarono che la legge 765 del 1967, introducendo il piano di lottizzazione, consentì l’emergere della nuova figura del promotore immobiliare. Questo non ha più bisogno di ricorrere alla vecchia licenza su verde agricolo – la pratica prediletta dal proprietario fondiario (figura di riferimento del blocco edilizio del decennio precedente), che Sergio Graziosi definì “rito ambrosiano” – perché, attraverso la pratica del convenzionamento, assume direttamente funzioni di piano.
A questo punto possiamo estrarre almeno tre lezioni: la prima è che l’esistenza di un piano attuativo non salva dalla speculazione; la seconda è che descrivere come lotta tra il piano e la rendita processi che investono i sistemi degli attori e riarticolano il regime urbano è fuorviante; la terza è che la felice espressione di “rito ambrosiano” non l’ha coniata Il Fatto Quotidiano.
Arriviamo a Milano nel presente. È una città sempre più polarizzata: aumentano i residenti con redditi alti e diminuiscono quelli con redditi inferiori a 26mila euro. E dunque molto difficilmente accessibile: tra il 2015 e il 2021, mentre i valori immobiliari segnano una impennata (+41% il valore dei prezzi medi di vendita, +22% quello degli affitti), i redditi medi crescono del 13%.
Milano è una città che ha confermato e rafforzato la sua posizione di centro di comando economico del Paese: il valore aggiunto delle imprese con sede a Milano raggiunge (dati 2022) l’8,2% del totale nazionale (era il 7,3% dieci anni fa). Mostra dinamiche demografiche interessanti: i suoi 1,4 milioni di abitanti sono cambiati in modo consistente: tra il 2008 e il 2023, vi sono state 770mila nuove iscrizioni all’anagrafe cittadina, a fronte di 630mila cancellazioni. Inoltre, negli stessi anni, se in Italia le persone tra 20 e 34 anni calano del 16%, a Milano crescono del 23%. Gli stranieri sono una quota significativa della popolazione, pari al 21,4%.
L’immagine che mi sono fatto è che oggi Milano è largamente abitata da persone dotate di ampi capitali: economici (ai proprietari di case, non è dispiaciuto l’andamento dei valori delle abitazioni), culturali e relazionali. Per molti, Milano è ancora lo spazio di espressione delle proprie traiettorie di lavoro e di vita. Se le immagini della “città delle opportunità”, del “place to be” sono stucchevoli, occorre riconoscere però che il “modello Milano” è stato veicolo di identificazione, socialmente costruito e agito, e rappresentato politicamente. Nelle elezioni amministrative del 2021, le liste che avrebbero dovuto esprimere il conflitto sociale e la rivolta degli esclusi (Potere al Popolo e Milano in comune) hanno preso 7.262 voti.
Dunque, come pensare Milano oggi?
La città appare di nuovo investita da una pestilenza, dai caratteri pressoché opposti però a quelli descritti da Marco Alfieri nel suo libro “La peste di Milano” del 2009, quando appariva «… una città sempre più vecchia, provinciale, poco vissuta da migliaia di city users che la consumano di giorno per poi fuggire la sera o nei weekend. C’è il declino della creatività, paradossale in un territorio vivace e produttivo ma dove la parola “cultura” continua a far rima solo ed esclusivamente con “Scala”. C’è l’incapacità di pensarsi come grande metropoli multietnica…».
La mia proposta è liberarci dalla narrazione che ci opprime, nelle due declinazioni del miglioramento e del peggioramento. Sono riduttive, semplificanti e in definitiva fuorvianti. E poi cambiare registro e ripoliticizzare il modo in cui interpretiamo i processi di produzione della città, assumendo la loro natura controversa, plurale, incerta. In questi giorni siamo impegnati a discutere di procedure, pratiche amministrative, meccanismi di regolazione; riduciamo gli attori al “triangolo di ferro” tra amministratori, tecnici e developer; invochiamo il piano come LA soluzione. Eppure, in una città poliarchica come Milano ce ne sarebbe da indagare per cogliere tracce, fenomeni solo parzialmente visibili, attori, conflitti emergenti, issue network in formazione.
Faccio tre esempi diversi: i) un insieme di gruppi e organizzazioni mobilitato su una questione strategica come l’abitare; ii) una associazione che indica nuovi temi per l’attivismo civico; iii) giovani che manifestato la loro presenza per conquistare riconoscimento. Tutti e tre incorporano una forte componente conflittuale relativamente allo spazio della città.
1. In uno dei quartieri a più forte trasformazione sociale della città e nella quale l’incremento dei valori immobiliari (della compravendita e dell’affitto) è stato particolarmente significativo, è attiva Abitare via Padova, una organizzazione che ha come scopo di porre in agenda la questione della casa abbordabile. L’aspetto interessante è la sua composizione e il tipo di attività che promuove. Vi sono infatti militanti storici, gruppi e associazioni rappresentativi dell’attivismo locale più recente, insieme a cooperative sociali che fanno lavoro di inclusione nel quartiere e ricercatori sui temi urbani e della casa degli atenei milanesi.
La singolarità del caso è che Abitare via Padova è impegnata sul fronte della comunicazione, della presenza nella discussione pubblica, della affermazione del diritto alla casa, ma anche nella ricerca, nel disegno e promozione di misure pubbliche di housing e nella costruzione e rafforzamento delle reti sul tema dell’abitare (con altre realtà locali, ma anche nazionali e europee). Insomma, è un nuovo attore di politiche pubbliche: muove un conflitto su una questione cruciale per il quartiere e la città, facendo insieme education e advocacy.
2. Sai che puoi è una associazione che intende “promuovere il protagonismo delle energie sociali”, attraverso iniziative che difendono le dotazioni del welfare materiale della città (che hanno fatto la storia del municipalismo milanese) e l’uso pubblico dello spazio urbano.
Sul primo fronte, ha animato la campagna per il mantenimento alla gestione comunale delle piscine pubbliche. Sul secondo, Via Libera è una iniziativa che, nella sera-notte del 16 maggio dello scorso anno, mobilitando centinaia di persone, ha mappato la sosta irregolare di 64mila automobili in tutta la città. Attraverso una straordinaria operazione di citizen science, ha fatto emergere che l’appropriazione privatistica dello spazio urbano sottrae quotidianamente all’uso collettivo parti di città “pari a 77 campi di calcio”.
3. Ramy Elgaml è morto a Milano, zona Corvetto, in una notte di novembre dello scorso anno. Era a bordo di uno scooter guidato da un amico. Non si erano fermati a uno stop dei carabinieri, che hanno deciso di inseguirli per tutta la città. È caduto sbattendo la testa. Aveva 19 anni. Subito dopo la morte, ci sono state proteste e disordini nel quartiere.
Ascoltai in quei giorni alla radio l’intervista a un ragazzo del quartiere. Diceva di volere giustizia, verità, luce sui fatti. Affermava che, in quelle ore a Corvetto, erano arrivati ragazzi da altre zone di Milano, ma anche da fuori città e da altre regioni: erano il segno della necessità di esserci, di affermare una presenza di fronte a un fatto inaccettabile; la risposta alla chiamata di condivisione di un lutto; un moto di ribellione dettato dalla percezione di un’ingiustizia. Avevano esercitato la loro prossimità, si erano fatti vicini al ragazzo morto, toccati da una stessa condizione.
Corvetto è diventato così un campo dove si sono resi visibili gli indesiderabili. Vi si sono convocati, per denunciare la mancanza di riconoscimento, esprimere la richiesta di vedere colmata questa mancanza, esercitare il proprio diritto al riconoscimento. Questo evento è stato nominato la rabbia delle periferie. Ma, più sottilmente, si è trattato di una rabbia che ha ingaggiato un corpo a corpo con la città, una rabbia con le periferie, che le periferie appunto incorporano, trattengono e, a volte, rilasciano.
A ben guardare, dunque, nella città vi sono attori, rappresentazioni di problemi pubblici, domande di politiche che vogliono farsi spazio (nel senso di conquistare la scena, ma anche di assumere lo spazio come veicolo di riconoscimento). Se sapremo riconoscerli e trattarli, possiamo attenderci tempi interessanti. Io ci vedo una speranza, in un Paese invecchiato e spento, e in una città che pare di nuovo – come cantava il poeta – «livida e sprofondata per sua stessa mano».
Devi fare login per commentare
Accedi