Milano

Milano, il PD e la continuità discontinua

Nel caos politico milanese, il PD appare smarrito tra alleanze deboli, narrazione sfuggita di mano e leadership che non controlla più. Serve coraggio: segnare discontinuità vera, visione autonoma, idee forti e nuove figure. Ora.

4 Agosto 2025

Nel caos politico di Milano, il PD appare smarrito tra alleanze deboli, una giunta stanca, narrazione sfuggita di mano e leadership che non controlla più. Serve coraggio: segnare discontinuità vera, visione autonoma, idee forti e nuove figure

Fare politica professionalmente nel 2025 è un mestiere crudele.

A fronte di uno status ormai evaporato da anni e di ritorni sempre più incerti, chi oggi vive la politica come una professione – il Beruf di weberiana memoria – somiglia a un guscio di noce in balìa di una tempesta: schiacciato dalle logiche disumanizzanti e depotenzianti dei social network, dalla concorrenza sleale degli attivisti monotematici e capricciosi, da una comunità che non è più un porto sicuro ma spesso una gabbia umorale, a cui rendere conto e da cui dipendere.

Questo vale, in particolare, per il Partito Democratico. Ultima, sgarrupata vestigia di un partito-comunità, il PD si trova – come sempre – a cantare e portare la croce: tanto per le proprie, non trascurabili, mancanze quanto per l’intemperanza di alleati obbligati e inconsistenti; per le bizze di eletti con i suoi voti che si scoprono monarchi; per i morsi della stampa che controlla quando vuole e dorme quando non vuole; per i lazzi di nullafacenti che dispensano pareri non richiesti.

L’ultima tappa – in ordine di tempo – di questo martirologio democratico si sta consumando a Milano. La vicenda è nota, inutile ripercorrerla. Ma negli ultimi giorni si è arricchita di nuove voci, provenienti da esponenti democratici che hanno finalmente rotto il voto del silenzio per esprimere il proprio disagio su quanto sta accadendo in Comune. E questo a prescindere, com’è giusto che sia, da quanto si svolge nelle aule dei tribunali. Qui si parla di politica, e dell’imbarazzo politico che trapela da molte interviste: alcune condivisibili, altre spiegabili solo con l’imperativo di “esserci”, per non scomparire, in una fase in cui la situazione è diventata particolarmente scomoda per quello che – piaccia o no – è ancora il partito di maggioranza relativa a Milano.

Alle ultime elezioni comunali, il Partito Democratico ha ottenuto quasi il 34% dei consensi: tre volte la Lega, secondo partito, e quasi quattro rispetto alla lista Sala. Per non parlare delle briciole degli altri partner di coalizione. Eppure, questa forza oggettiva non si è mai tradotta – in questa consiliatura – in un effettivo peso politico all’interno della giunta. Sala ha continuato a fare il bello e il cattivo tempo, scegliendosi assessori su misura e facendo fuori quelli del PD che avevano i voti, o portandoli altrove, a ricoprire ruoli incongrui come quello di Capo di gabinetto. È evidente quindi che la responsabilità, politica, di ciò che oggi sta accadendo ricade in primis sul Sindaco.

Ma i democratici non sono senza colpe. Anzi: portano sulle spalle una pesante culpa in vigilando. Per anni hanno parlato di povertà e politiche sociali, e hanno praticato una onestissima amministrazione ma, fin dall’episodio delle tende davanti al Politecnico, primo segnale che le crepe c’erano e soprattutto bucavano il rumore di fondo, non hanno saputo – o voluto – puntare i piedi di fronte all’evidenza che la narrazione della città (ché le città sono innanzitutto narrazioni) stava cambiando in senso contrario alle loro predicazioni. Non hanno fatto quello che si sarebbe fatto in altre epoche (che mai avremmo immaginato potessero mancarci): da azionisti di maggioranza, avrebbero dovuto pretendere verifica, autocritica, oppure mettere in discussione la fiducia al Sindaco. Invece hanno lasciato che il capo coalizione si montasse la testa, ribaltando la prospettiva.

Oggi, le idee che emergono – magari tardive, magari estemporanee, ma spesso oneste – per cercare di raddrizzare la barca della narrazione sulla crisi di Milano portano con sé un tarlo inevitabile: dove eravate?
Già: dov’era il PD?
Con chi oggi scrive sul Foglio che “non si interrompe un’emozione”? Con chi invoca la chiusura di tutto e la pubblicizzazione di Montenapo?
Probabilmente un po’ di qua, un po’ di là, molto immerso nell’amministrazione quotidiana. Ma amministrare ahinoi non è tutto: c’è anche l’altra metà del mestiere della politica, quella che consiste nel dare visione, direzione, prospettiva.

Fatto sta che, nella narrazione di una Milano risucchiata dal mercato, il PD appare come quello che si è svegliato tardi, stretto tra una comunità delusa e un Sindaco – che ha voluto, fatto eleggere e rieleggere, e che sostiene come architrave – determinato ad andare avanti per la sua strada e ribadire che comanda lui.

Un bel guaio. Da cui non si esce con le buone intenzioni, con le utopie, con le strambate a sinistra o con le analisi sulle colpe della destra in Regione.

Serve altro, tra cui le quattro cose che provo a indicare:

Primo. Come mi ha detto un interlocutore intelligente con cui si commentavano le interviste: “La discontinuità senza discontinuità è una filosofia che esiste solo nella loro testa, non nella realtà.” Non si può essere per la discontinuità e, allo stesso tempo, per la continuità, dire che le cose vanno bene ma anche no. O meglio, si può anche esserlo, ma non è detto che gli altri ti capiscano e ti seguano.

Secondo. Il PD deve marcare la propria identità rispetto a Sala e all’attuale giunta. Basta colpetti e distinguo. Occorre dire chiaramente se si è d’accordo con la direzione presa – e allora la si difenda – o se si ritiene che le cose siano sfuggite di mano e vadano riprese anche con le maniere forti. A settembre arriva il nodo San Siro, la “bandiera” del Sindaco: lì non ci sarà spazio per i tartufismi. Sì sarà sì, no sarà no.

Terzo. Se si ha un’idea di città – e sarebbe bene averla – è il momento di tirarla fuori. Un’idea vera, con sostantivi e verbi, più che con aggettivi. Lo scongelamento della visione della città metropolitana e il ritorno dei municipi nel dibattito pubblico possono essere tasselli di un disegno più ampio, integrato ma autonomo rispetto a quello di Sala. Anche perché il Sindaco è tecnicamente un’anatra zoppa: non è ricandidabile e ha quindi interessi già divergenti da chi dovrà tornare dagli elettori.

Quarto. A fine consigliatura – o quando sarà politicamente giusto – bisognerà tornare con una proposta coraggiosa di futuro. Se la narrazione si è esaurita, non basterà picchettare l’attuale per centrare la ruota storta sul manubrio: bisognerà cambiare direzione. E facce. Lo dico con dolore, ma non mi pare che nessuno dei pur lodevoli nomi oggi in campo incarni credibilmente la rottura necessaria, né sia portatore di un’idea sufficientemente complessa di cosa fare domani. Abbiamo bisogno, come tutti, di un’Ada Colau o di uno Zohran Mamdani. Qualcuno non visto arrivare, che sparigli con coraggio come già fece Pisapia, mettendosi dietro le tristezze dell’oggi e la fatica di una legislatura che al massimo si trascinerà per i prossimi due anni per una nuova idea di Milano, abbastanza sexy da tirarsi dietro una coalizione tra chi corre e chi oggi ha il fiatone.

Se invece la strategia è quella dell’opossum, dire due cose e fingersi morti in attesa che passi la buriana, buona fortuna. Ne avrete bisogno.

 

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