
Milano
Quer pasticciaccio brutto di San Siro
Milan e Inter contestano le stime del Comune sui costi di San Siro: 810,7 mln per un nuovo stadio, 428,4 per ristrutturarlo. Tra appetiti finanziari, politica incerta e vincolo in arrivo, la vicenda appare più farsa che progetto: probabile esito, il nulla di fatto.
Leggendo ieri del documento depositato a Palazzo Marino da Milan e Inter, nel quale si afferma che costruire un nuovo stadio costerebbe 810,7 milioni di euro, mentre la ristrutturazione costerebbe 428,4 milioni, non ho potuto non pensare con Flaiano che su San Siro la situazione è grave ma non seria.
La notizia, apparsa un po’ in sordina, secondo la quale i club smentiscono – e non di poco – le valutazioni sui costi della costruzione di un nuovo stadio fatte dal Comune di Milano, aggiunge innecessaria entropia ad una vicenda un po’ folle, nella quale convergono l’acribia del Sindaco Sala nel rispettare il proprio programma anche di fronte a un cambiamento radicale di scenario, salvo un’apparente resipiscenza post vacanziera, l’afasia della politica, che solo oggi comincia a capire che seguire il primo cittadino oggi porterebbe a sbattere contro un muro, i formidabili appetiti della finanza mattonara.
Alla grossa: Sala vuole vendere San Siro ai fondi che posseggono i club perché il Comune ha bisogno di soldi, perché sennò Milan e Inter vanno a giocare all’estero (San Donato e Rozzano), e perché vuolsi così colà dove si puote(va) ciò che si vuole, e se non si fa così io mi dimetto, salvo farsi una botta di conti e cambiare idea sui propositi del muoia Sansone; la politica ha taciuto finché si poteva surfare su Milano che corre, poi è andata in crash di sistema (a parte poche voci marginali), rivendicando forse per il caldo estivo il basta regali ai privati prima di votare l’ultimo mega saldo, come chi si abbuffa la sera prima della dieta; i fondi, che da tifosi delle squadre abbiamo cominciato a conoscere per quello che sono, gretti ragionieri che parlano inglese, che se hanno due spicci non li mettono sul calciomercato e che francamente si fa fatica a pensare possano costruire qualcosa di così grande e costoso come uno stadio che dovrebbe sostituire uno degli stadi più importanti del mondo, per questo un po’ minacciavano sfracelli inesistenti, un po’ si aspettano qualche regalo stile Torino alla Juventus.
Troppi ingredienti perché non venga fuori un pastiche, in cui tutti, complici anche i tempi, che hanno messo ogni decisione del Comune sotto una luce fredda e intensissima, escono un po’ o molto male. Peraltro per qualcosa che molto difficilmente avrebbe davvero avuto luogo: perché la crisi di San Siro a mio modestissimo avviso è soprattutto crisi di ciance, posizioni inflessibili fino a quando flettono, e tantissima carta. I fondi volevano comprare e patrimonializzare un permesso di costruire, che avrebbe consentito loro di piazzare meglio le squadre quando, finalmente, le metteranno sul mercato, mentre la politica, che ha passato anni a brindare ai primati di Milano mentre i pantaloni si consumavano, considerava possibile fare cassa con un (magari brutto) landmark di una città che non è Dubai, e l’identità non può svenderla.
La vicenda di San Siro, per la quale chi scrive auspica e predice l’esito di un nulla di fatto, ha il discutibile merito di saldare due filoni di delusione verso la giunta Sala, che altrimenti sarebbero rimasti separati: quello di chi pensa che le città debbano essere presidii del primato del pubblico, e quello di chi, come il sottoscritto, pensa che un città come Milano debba rimanere un luogo in cui succedono le cose e che tutto questo non possa avvenire né se si pubblicizza tutto, né se vincono i ragionieri della finanza.
Le città che funzionano sono un magnifico casino in cui via Montenapoleone e il Leoncavallo non solo convivono, ma si sostengono a vicenda: se viene meno una ci metti un niente a diventare Montecarlo o Detroit. Parte del mix è anche la convivenza di antico e moderno, identità e innovazione costante. Forse New York potrebbe radere al suolo la Grand Central Station, ma non lo fa. Volere che i luoghi del primato della varietà, le città, diventino monoculturali è un vizio da ideologi, lobbisti o pessimi politici, che hanno scritto più libri di quanti ne abbiano letti.
Chiudere questa Storia che si palesa come farsa senza essere passata per la tragedia, a cui si aggiunge anche la corsa contro il tempo per prevenire il vincolo che scatterà il 10 novembre, con il contorno Indiana Jones della vicenda delle targhe storiche, è meno complicato di quanto non sembri: basta dire di no. Non serve nemmeno che la politica si avviluppi in una discussione infinita, basta che il partito di maggioranza, auditi gli elettori e letti i giornali, dica che non è proprio il momento migliore per deliberare qualcosa di così grosso e controverso. Qualcuno si arrabbierà, qualcuno minaccerà di nuovo di andare fuori Milano, poi tempo Natale saranno già tranquilli, che a febbraio c’è da gestire il costo della grandeur di Milano che non si ferma, i giochi olimpici.
Si chiama opportunità politica. Signori consiglieri, fateci amicizia, accarezzatela. Non morde (quasi mai).
PS: se poi i cugini rossoneri volessero proprio accomodarsi in un altro stadio più acconcio alle loro ridimensionate ambizioni, lasciando all’Inter San Siro io ci sto, sia chiaro.
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