La startup dell’economia circolare nata dopo la tempesta Vaia
Nel contrasto a quel terribile golem che è il cambiamento climatico, le aziende attive nella cd economia circolare sono in prima linea. E questo è ancor più vero nel nostro paese, tra gli indiscussi leader di un nuovo modo di concepire il business, più gentile e attento alla natura. E di questo business così promettente da attirare l’attenzione delle principali large corporates, un recente case study è Vaia, startup che utilizza il legno degli alberi abbattuti nel 2018 dall’omonima, devastante tempesta per produrre amplificatori. Vaia è stata fondata da tre giovani imprenditori: un polesano, un catanese e un trentino.
L’amministratore delegato e co-fondatore della startup, Federico Stefani, ha 29 anni, e la traiettoria della sua carriera è emblematica di una generazione sempre più attenta ai temi del cambiamento climatico, del rispetto della natura, dell’imperativo di concepire un nuovo modo di produrre. Dopo una laurea in international management Stefani si è spostato a Bruxelles, dove ha trovato impiego presso la Nato. Tuttavia le notizie della devastante tempesta, che ha messo in ginocchio ampie porzioni del nordest e persino della Lombardia, lo hanno spinto a compiere una brusca virata, un “cambio di programma” che è un vero colpo di scena.
Stefani spiega:
«La tempesta è stato un trauma. È la prima volta che l’Italia ha visto un disastro di tale tipo e portata. Per la prima volta abbiamo vissuto con estrema durezza quello che è il cambiamento climatico. La tempesta per me ha anche rappresentato la distruzione dei boschi delle Dolomiti della mia infanzia, territori dove ora non si può più camminare per via dell’altissimo numero di alberi che giacciono tuttora a terra.
La notte della tempesta mi trovavo a Ferrara, intento a scrivere la mia tesi di master, e ricordo l’impossibilità di comunicare con la mia famiglia. Non si capiva cosa stesse succedendo, né dalle news né tantomeno in valle. Solo alle luci dell’alba ci si è resi conto di quanti ettari di bosco fossero stati rasi al suolo».
Il fattore all’origine della startup Vaia, dunque, è la tempesta Vaia. La tragedia ha trasformato ettari ed ettari di vigorose foreste in una no man’s land degna della Grande Guerra. Stefani e i due colleghi, in un modo tipico di certa imprenditoria nordestina, ha però saputo trasformare il trauma (e la morte di quasi 50 milioni di alberi) in opportunità tangibile e al medesimo tempo visionaria di riscatto e rinascita, in un piccolo emblema di resilienza che non può non rievocare le gesta di centinaia di migliaia di artigiani triveneti che nel secondo Dopoguerra, sulle rovine fumanti di case, negozi e fattorie, iniziarono a costruire officine, fabbrichette, capannoni che decenni dopo sarebbero divenuti quelle piccole multinazionali tascabili che tutto il mondo ci invidia. È questa una prima lezione della startup Vaia, ovverosia tenere a mente il coraggio e la caparbietà delle generazioni che resero possibile il cosiddetto Miracolo italiano, e cercare di seguire il loro esempio nei momenti difficili (come la tempesta Vaia, o come il Covid-19 che continua a colpire).
La seconda lezione della startup Vaia è che di un albero non si butta via niente. Il legno, nella sua naturale e perfetta imperfezione, è la materia prima, l’argilla con cui realizzare, appunto, amplificatori. La terza lezione è… non sottovalutare il nostro retaggio manuale. I tre giovani imprenditori hanno infatti arruolato artigiani locali, una pacifica “chiamata alle armi” che ha consentito di attingere a quel giacimento incredibile di saper fare che noi italiani dobbiamo ancora imparare a riscoprire, valorizzare e comunicare come altri popoli (i francesi, gli svizzeri, gli austriaci eccetera) fanno da decenni.
Racconta Stefani:
«Pochi giorni dopo la tragedia, mi sono recato in Trentino e mi sono reso conto di ciò che era successo. È stato un vero e proprio shock. È stato in quel momento che ho capito che dovevo rimboccarmi le maniche, come del resto hanno sempre fatto la mia comunità e la comunità dolomitica in generale.
Ho avuto un’intuizione guardando un oggetto a cui sono molto legato perché è l’ultimo oggetto che mio nonno ha costruito con le sue mani: un amplificatore passivo, da lui realizzato a mano, con uno scalpello, in legno di noce. Ho pensato di ricreare un oggetto simile con il legno degli alberi caduti. È stata un’epifania che ha dato vita al Vaia Cube, oggetto creato con lo scopo di raccontare e amplificare in modo naturale la storia dei territori colpiti. Ho quindi coinvolto qualche amico dell’università, designer, falegnami, segherie, e iniziato a strutturare il progetto che a distanza di pochi mesi è diventato Vaia, startup che coinvolge le persone che conoscono i territori colpiti e che provano amore per i loro boschi brutalmente danneggiati».
Qui la quarta lezione: coinvolgere le comunità, parola inflazionatissima ma in realtà spesso dimenticata, anche dalle startup in fasce (che peccano spesso di un eccesso di individualismo). Alla fin fine gli stessi distretti industriali che tanto hanno fatto (e continuano a fare) per il paese, cosa sono se non comunità pronte a mettersi in gioco con le loro competenze, i loro know-how, le loro capacità?
Dice Stefani:
«La nostra mission è creare valore reale. Non un valore finanziario non percepibile, ma un valore concreto, possibile. Abbiamo cercato di coinvolgere il più alto numero di artigiani e segherie, di boscaioli… Questo non è il progetto di una persona, ma di una comunità che si muove insieme e crea valore, insieme».
A oggi questi tre giovani imprenditori, che sono riusciti a coinvolgere artigiani in Veneto, Trentino e Lombardia, dividono il loro tempo tra designer, segherie e i clienti che da tutto il mondo acquistano questi loro oggetti, ognuno – precisano nel sito della startup – unico, perché ogni pezzo di legno è diverso dall’altro. E per ogni oggetto venduto, viene piantato un albero, in modo da contribuire a far rinascere quei boschi che la tempesta ha distrutto: una startup dell’economia circolare sino in fondo, insomma.
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