Istat: l’illusorio vantaggio di vivere nei piccoli centri

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11 Luglio 2015

E’ vero: il costo di un canone di locazione di una casa in un paese in provincia di Milano difficilmente eguaglierà quello di una abitazione nel capoluogo lombardo (identico discorso vale per tutte le grandi città), ma vivere nei piccoli centri non è conveniente come molti pensano.

A dirlo è l’ultimo report dell’Istat, l’istituto nazionale di statistica, sui consumi delle famiglie in Italia, pubblicato pochi giorni fa.

Abitare in un piccolo comune, per esempio,  fa crescere anche le spese di trasporto: 277,96 euro (11,5% della spesa totale), contro 204,93 euro delle aree metropolitane (7,5%). In particolare, nei piccoli comuni la spesa per trasporto privato è di quasi 100 euro superiore a quella dei comuni più grandi (260,74 contro 171,82 euro dei centri metropolitani), ma quella per trasporto pubblico è circa la metà (17,22 contro 33,12 euro).

Il gap tra piccoli centri e città metropolitane si vive anche al momento dello shopping: la ridotta possibilità di rivolgersi a più esercizi commerciali e di accedere a offerte concorrenziali, unitamente alla maggiore ampiezza familiare, comporta livelli di spesa per abbigliamento e calzature più elevati nei piccoli centri (128,45 euro contro 93,13 euro dei centri metropolitani),dove arrivano a rappresentare il 5,3% della spesa totale.

IMMIGRATI  “FORMICHINE”

Altro dato interessante che si legge nel rapporto Istat riguarda gli stranieri. Le famiglie di immigrati spendono quasi 900 euro meno di quelle di italiani.
Effetto delle “economie di scala”,che si realizzano all’aumentare dell’ampiezza familiare, il livello di spesa media aumenta in misura meno che proporzionale rispetto al numero di componenti.

Nel 2014 (l’anno di riferimento dei dati contenuti nel rapporto), ad esempio, la spesa media mensile per una famiglia composta da un solo individuo è pari al 70% circa di quella delle famiglie di due componenti. Tenendo anche conto dell’ampiezza familiare, le famiglie con stranieri, quelle con a capo una persona esclusa dal mercato del lavoro o con basso titolo di studio e le famiglie più ampie (coppie con tre o più figli e famiglie con membri aggregati) hanno maggiori vincoli di bilancio.

La spesa media mensile più bassa si osserva, quindi, tra le famiglie di soli stranieri (1.644,72 euro), segue quella delle famiglie con persona di riferimento in cerca di occupazione (1.793,88 euro) o in altra condizione non professionale (1.876,71 euro), con basso titolo di studio (1.757,82 euro). Infine, i single anziani hanno una spesa media mensile (1.630,29 euro) inferiore a quella dei single più giovani, ma per le coppie senza figli il valore più basso si osserva tra quelle con persona di riferimento di età inferiore ai 35 anni (2.391,18 contro i 2.489,57 euro delle coppie anziane).

BISOGNA PUR MANGIARE

Il più basso livello si associa a una diversa composizione della spesa: pesano di più le spese destinate al soddisfacimento dei bisogni primari, come quelle per alimentari, abitazione, mobili, articoli e servizi per la casa. Queste rappresentano meno della metà della spesa per le coppie giovani senza figli ma quasi i due terzi per le famiglie con a capo una persona
in cerca di occupazione (61%), in altra condizione non professionale (65,7%) o con basso titolo di studio (67,8%), per le famiglie di soli stranieri (63,3%) e sfiorano i tre quarti tra gli anziani soli (72,2%).

La componente alimentare rappresenta circa un quinto della spesa tra le famiglie numerose e con figli (il 20,9% per quelle con 5 o più componenti e il 20,4% per le coppie con tre o più figli, contro il 15,5% per le famiglie di un componente), tra gli anziani (il 18,8% per le coppie con persona di riferimento ultrasessantacinquenne e per i ritirati dal lavoro), tra gli stranieri (21,1%) e tra le famiglie con persona di riferimento in cerca di occupazione (21,3%) o con basso titolo di studio (21,2%).

Acquista generi alimentari presso hard discount il 23,6% delle famiglie con stranieri, il 18% dei single giovani (meno di 35 anni) e delle coppie con tre o più figli, e il 14,7% delle famiglie che vivono nei grandi comuni. Valori decisamente più bassi si registrano per le coppie di anziani (meno del 10%) e per quelle con persona di riferimento con almeno la laurea (7,3%).
La scelta di alimentari biologici riguarda per lo più le famiglie residenti nei comuni più ampi (nei grandi comuni si arriva al 14,7%), le coppie giovani o quelle con un figlio (15%) e, soprattutto, le famiglie con persona di riferimento in possesso almeno della laurea (22,5%).

TENERSI IN SALUTE

Nel caso degli anziani, tra le spese incomprimibili sono incluse anche quelle sanitarie che rappresentano un ulteriore 6%. Ma sono tutti gli italiani a spendere sempre di più per farmaci e prestazioni sanitarie: nel 2014  ben 166 euro in più, secondo  una elaborazione del Quotidianosanita.it.

Nell’anno preso in esame ogni famiglia italiana ha speso per servizi sanitari e prodotti per la salute una cifra stimata di 109,45 euro al mese, pari a 1.313,4 euro l’anno. Un esborso pari al 4,4% della spesa totale delle famiglie che rivela una crescita dello 0,5% rispetto al 3,9% del 2013 dove la spesa media era di 95,63 euro e quella annuale era di 1.147,5 euro. Le famiglie di cittadini stranieri spendono per la salute esattamente la metà rispetto a quelle italiane.

Le Regioni in cui i cittadini dedicano ai consumi di salute una percentuale più elevata di budget sono la Valle d’Aosta (5,6%), il Veneto (5,4%), la Puglia (5,2%), la Pa di Trento (5,2%). Le Regioni invece i cui i cittadini spendono meno sono la Sardegna (3,2%), l’Umbria (3,5%), la Campania (3,6%) e la Toscana (3,9%).

Per quanto riguarda i medicinali, diminuisce la percentuale di famiglie che li acquista presso i supermercati (dall’11,3% del 2013 al 9,4% del 2014), a favore delle farmacie (dall’85% all’88%).

 

TAG: istat, Rapporto sui consumi delle famiglie italiane
CAT: consumi, costumi sociali

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