Va bene commuoversi all’appello di una Ong. Ma prima di donare, aspettate 24 ore

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30 Dicembre 2015

Gli ultimi giorni dell’anno vedono un picco nelle donazioni a cause e charities, e Annie Duflo, direttrice della ong Poverty Action, ne ha approfittato per fare il punto sulla questione beneficenza. Traendo ispirazione dalla propria esperienza e dall’uso che la sua ong fa degli studi comportamentali, ha scritto per Quartz un articolo intitolato The economics of giving: how our emotions get in the way of helping others (L’economia del dare: come le nostre emozioni ci sono d’intralcio nell’aiutare il prossimo). Si tratta di un utile breviario che suggerisce come muoversi quando si decide di fare una donazione a persone e popoli più svantaggiati, allo scopo di farlo nel modo più efficace, dosando al meglio cuore e cervello. Una sorta di “ottimizzazione della beneficenza” basata su ricerche di comportamentismo, statistiche di efficienza e insight psicologici. E se il verbo ottimizzare apparentemente stride con l’idea, tutta empatica ed emotiva, di aiutare chi è più sfortunato, pensate che saper fare bene il bene, ovvero donare pragmaticamente, vuol dire salvare più vite. Ecco i consigli di Duflo.

Ignorare il mito dell’overhead
Quello secondo cui la percentuale tra spese amministrative e raccolta fondi determinerebbe la serietà di un’organizzazione. In realtà, non è così semplice: anziché fare le pulci a una Ong che spende troppo in bollette o paga molto i suoi dirigenti, sembra suggerire Duflo, meglio guardare ai risultati, ovvero a quante situazioni d’emergenza sta risolvendo con efficacia. Ci si può aiutare con siti come The Life You Can Save and GiveWell , che fanno monitoraggio sui risultati delle raccolte fondi e sulle performance delle varie charity. E si possono prediligere le organizzazioni che investono anche in rigorose indagini, ed eventualmente premiare quelle che, in caso di risultati non esaltanti, sono disposte a cambiare metodologia.

Fare attenzione al bias dell’immediatezza
Negli studi comportamentali si definiscono bias quelle scorciatoie mentali che, a differenza delle euristiche, tendono a far prendere decisioni prevalentemente sbagliate. Il bias dell’immediatezza, per esempio, è quello che ci fa ritenere più rilevante e urgente fare donazioni alle vittime di catastrofi naturali recentissime e urlate sui media, piuttosto che su “emergenze fredde” che durano da più tempo e fanno più vittime. Secondo Duflo uccidono di più diarrea e malaria, ma è più facile un’impennata di donazioni in caso di terremoto. (Secondo lo stesso studio che descrive questo bias in contesti umanitari, dopo 24 ore dalla visione di un appello o dell’emergenza in questione, è possibile prendere decisioni più razionali)

Donare laddove il nostro denaro salva più vite
Fare una donazione alla clinica che si è presa cura di un nostro caro, spiega Duflo, può essere percepita come una causa molto vicina al nostro cuore. Ma è più sensato dare soldi laddove questi hanno un valore più alto, e di conseguenza possono raggiungere, aiutare e salvare più persone.

La direttrice della ong suggerisce anche di tenere separati i soldi che si desiderano donare in beneficenza sia mentalmente (così che non entrino in concorrenza con altre spese), sia praticamente, magari mettendo mensilmente da parte una piccola percentuale delle proprie entrate o facendo regolari microdonazioni con la carta di credito. Ma il messaggio è soprattutto quello di non affidarsi solo all’emotività: se sono infatti le emozioni che ci portano a provare empatia e suggeriscono lo slancio a donare, usandole come sola bussola d’azione si rischia di non essere d’aiuto quanto si vorrebbe. Per questo, va benissimo lasciarsi emozionare dal video di una tragedia umanitaria, ma prima di donare conviene chiedersi dove i nostri soldi, al di là dell’urgenza emotiva, possono fare di più.

TAG: beneficenza, charity, no profit, ong
CAT: consumi, diritti umani

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