Se il Brand diventa attivista

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7 Ottobre 2020

C’è stato un tempo in cui le aziende avevano il compito primario di vendere i loro prodotti e servizi, raccontandoli soprattutto dal punto di vista dell’utilità.

“Questo prodotto è il migliore per te, il più valido, il più adatto: compralo”.

Una tale narrazione di solito la si trovava in TV o in radio e la si sentiva qualche volta al giorno. I tempi però cambiano e ad un certo punto le aziende si sono ritrovate a inseguire le accelerazioni sociali, immerse in eco-sistemi mediatici di tutti i tipi: carta, web, social media, TV, radio, etc. E dove il racconto identitario dell’azienda e la narrazione commerciale dovevano fare i conti con clienti, consumatori e portatori di interessi in attenzione assediata, sollecitati da migliaia di stimoli di acquisto al giorno, accerchiati da icone e simboli su mezzi di comunicazione diventati biografici (vedi Instagram, TikTok). E in cui un influencer può essere più socialmente incisivo di un partito politico.

In questa situazione, ad oggi ancora in corso, le aziende si sono accorte che non potevano più inseguire un consumatore, o peggio “colpire un target”, ma dovevano diventare a loro volta influencer sociali, sollecitando il cambiamento collettivo a livello economico, politico ed esistenziale. Così le organizzazioni hanno iniziato a diventare attiviste e partigiane di idee. Portatrici di valori più o meno radicali per un presunto benessere collettivo. Vedi la famosa campagna della Nike del 2018 dove – con Colin Kaepernick – l’azienda prende posizione verso certi valori politici.

Credits: Campagna Nike con Colin Kaepernick

 

O anche le narrative di Gilette, Patagonia, Ikea, Diesel, Netflix, Coca-Cola, Starbukcs.
Per esempio, sul sito di Patagonia si può leggere una richiesta di elezione per leader attenti al clima.

 

Credits: Screenshot website Patagonia (https://www.patagonia.com/home/)

 

L’attivismo di marca è quindi quel tipo di iniziativa in cui l’impresa cerca di giocare un ruolo da protagonista nei processi di cambiamento culturale. Ma bisogna scegliere il posizionamento attivista. Avete già scelto il vostro?

Con il brand activism, le aziende mettono in scena un’apprensione per le comunità che servono e cercano di trovare soluzioni per i loro problemi economici, sociali e ambientali. Proponendo nuovi temi da seguire, nuovi comportamenti da assumere, nuove pratiche di vita da fare proprie si avvicinano alla vita dei consumatori.
Questo consente alle aziende di stabilire relazioni basate non solo su una serie di valori con i clienti, ma addirittura sulla condivisione di destini. Sulla messa in comune di missioni di vita che vedono le aziende e i clienti stessi, protagonisti di una storia di salvezza comune (custodiamo il pianeta, difendiamo l’ambiente, proteggiamo la salute, aiutiamo le comunità, etc).

Il brand activism funziona. Piacciono le cause sociali e si aumentano le vendite. Questione dimostrata negli ultimi due anni da diverse ricerche. Ma bisogna farlo correttamente.

Cosa accade infatti se la marca diventa attivista o partigiana?
Succede che non solo devi scegliere una causa politica, ambientale, economica, sociale sulla quale esprimerti, ma anche prendere posizione sui temi e i valori da stigmatizzare; cosa – questa – ancora più difficile.

Inoltre come azienda o marca sei chiamata a:

  • allineare i tuoi valori alla causa scelta
  • decidere azioni da svolgere nel sociale coerente con la causa
  • raccontare su tutti i canali di comunicazione aziendali (interni ed esterni) la causa
  • agire concretamente nel sociale e raccontare le cose fatte a favore della causa (story-making)
  • prepararsi a gestire l’effetto boicottaggio (#NikeBoicott), cioè a rispondere a tutte le contro-narrazioni, perché le audience si polarizzeranno e quindi avrai chi ti amerà, chi ti odierà, chi ti sbeffeggerà con sarcasmo (il vero pubblico critico).

Insomma, un gran lavoro. L’attivismo di marca, come dicono Kotler e Sarkar in un loro recente lavoro,  si esprime attraverso la visione, i valori, gli obiettivi, la narrazione e il comportamento delle aziende e dei marchi nei confronti delle comunità che servono. E in questo grande lavoro può accadere di perdersi, di non essere autentici, di invadere la vita personale con operazioni di semplice cosmesi retorica. Da evitare.

Se le nuove narrative di impresa spingono, in una ingiunzione quasi mistica, a liberare noi stessi, a salvare il mondo, a una vita migliore, basta che ci crediamo e ci impegniamo, non bisogna esagerare.

Come fa notare Marian Donner in un altro lavoro attuale – che è la messa in guardia alla retorica aziendale contemporanea – le imprese ci chiedono di essere ribelli e di cambiare il mondo comprando prodotti e servizi. Messaggio da usare con sapienza per evitare che il senso della vita diventi merce.

E voi, da che parte state?
Quale nuovo destino volete proporre e per cosa siete disposti a lottare?
Attenti però a non far diventare la lotta una nuova mercanzia, di cui essere sbeffeggiati. Fatelo.

Ma fatelo bene.

TAG: brand activism, branding, economia, innovazione, personal branding, storytelling, storytelling digitale
CAT: consumi, Innovazione

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