Sulle responsabilità della politica: il DIY in tempo di Peste

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10 Maggio 2020

«Cosa c’è  in comune tra imparare a cucire la tua mascherina su Internet, l’aiuto ai migranti o fare una donazione a Telethon? E’ il regno del “Do it yourself”, un regno che racconta la negligenza dello Stato».

Olivier Ertzscheid è un ricercatore francese in Scienze dell’Informazione e della Comunicazione, ha un blog, Affordance.info, e scrive per Libération.

Nella sua ultima tribuna per Libé, il 3 maggio, Ertzscheid fa un parallelo tra la cultura DIY (Do it yourself*) — cultura che contiene l’idea di fare/creare/produrre da soli, bypassando i professionisti — e le politiche pubbliche. O meglio, della dicotomia che questo rapporto sta rivelando.

L’editoriale si intitola “Tutos partout, santé publique nulle part”, in italiano suona come “Tutorial ovunque, ma dov’è la Sanità Pubblica?”.

Sono ovunque, dall’inizio di questa crisi, i tutorial: tutorial su come fare la propria maschera, su come lavarla, con quali metodi, tutorial su come fare un camice per il personale sanitario, su come fare il gel idroalcolico

Parallelamente, anche, le iniziative per costruire quello che manca, volontarie, gratuite, tutorial o meno: per fare un respiratore — un’idea abbastanza incredibile di un’équipe di ricercatori di Nantes: un respiratore artificiale a basso costo e open source, Markair — oppure, ancora, i respiratori fatti con le maschere di Decathlon da un’azienda bresciana (che i medici piemontesi hanno montato grazie a tutorial dopo aver ottenuto i pezzi tramite doni), o ancora i pezzi mancanti per i macchinari (valvole per respiratori stampate in 3D), le visiere per il personale sanitario e per le cassiere dei supermercati. La lista è più lunga di queste quattro righe.

Questo perché Internet è un posto meraviglioso, perché insieme siamo più intelligenti, perché nonostante tanti “se” e tanti “ma” le persone condividono, si aiutano, inventano soluzioni, perdono e regalano il loro tempo, si divertono, hanno un progetto, un sogno, si preoccupano, agiscono.

Questo, anche perché c’era un bisogno reale, perché le maschere non c’erano per tutti, perché il gel non si trovava, perché i respiratori non sono abbastanza.

Questo, anche, perché il sistema sanitario non è in grado di assorbire una crisi di questo genere: troppi pochi posti letto, personale sotto-pagato, tagli alle assunzioni, privatizzazioni, eccetera, eccetera.

DIY dove arriva?

«La nostra società ha visto da tempo emergere la figura dell’hacker, che è anche quella del “maker”. I “maker” sono più vecchi storicamente degli hacker, la cui cultura è specifica alla contemporaneità informatica); i maker rimandano all’operaizzazione (“ouvriérisation” in originale) dell’agire sociale e tecnico che ha preceduto il fordismo e la Prima rivoluzione industriale: un periodo nel quale ogni casa aveva i suoi “maker”, ovvero chi sapeva fare le cose, che si trattasse di cucire, ricamare, piantare, riparare… Saperi ieri trasmessi dall’eredità, oggi dai tutorial del capitale. (…) Una società di “maker” quindi. Ma perché farlo, perché, perché noi?»

Si stanno sovrapponendo concetti, sedimentando abitudini, si installano delle scorciatoie del pensiero che poi diventano intoccabili. Per questo ha senso fermarsi sui dettagli. Per questo riflessioni come questa di Ertzscheid hanno un senso che va oltre le definizioni e i concetti che esprime.

(Maker e hacker)

Prima di continuare con Ertzscheid apro una parentesi. La differenza tra maker e hacker è importante in questo contesto, anche se è minuscola nella pratica. Una virgola storica.

Il concetto e la storia di hacker (e la cultura hacker), non è un cultura di pirati (nell’accezione negativa che può avere questo termine). La cultura hacker è una cultura di correzione, sfida, risoluzione, di condivisione, di collettivo. C’è una parola francese alla quale non corrisponde una parola italiana, la “débrouille”. L’hacking è una forma di débrouille. Débrouille vuol dire “sapersela cavare”, risolvere, arrangiarsi. La cultura hacker è una cultura della débrouille, del trovare una soluzione, inventare, mettere insieme, arrangiarsi con quello che si ha per risolvere un problema. In questo senso il DIY è un hacking, perenne.

Questa cultura, del farlo noi, da soli o insieme, del farlo meglio, del farlo perché c’è bisogno, è una bellezza. Non smettiamo.

Ma questa cultura è un’ottima ragione per metterne in discussione un’altra. O per chiedersi che spazio ha.

Urgenza e previdenza

«Perché siamo nella situazione di accettare di fare noi, nell’urgenza, quello che altri avrebbero dovuto fare per noi, nella previdenza? Altri che finanziamo con le nostre tasse, per esempio. Altri che potrebbero scegliere politiche più giuste e distributive, per esempio.

Perché il DIY, “fatelo voi” oggi va oltre il bricolage, per arrivare ad estendersi, nei nostri stati liberali, a dei settori interi dell’accompagnamento umanitario e sociale. Per esempio? Le associazioni che da sole si occupano di accogliere migranti, o di fornire un pasto caldo, le varie raccolte fondi che si sostituiscono ai finanziamenti pubblici e suppliscono alle conseguenze di scelte budgetarie fatte in nome della doxa liberalista.

“Fatelo voi”, soccorrete gli immigrati nel Mediterraneo. “Fatelo voi” di dare un tetto ai rifugiati minorenni. “Fatelo voi” di dare un pasto caldo a chi vive nella miseria. “Fatelo voi”, finanziate la ricerca pubblica. “Fatelo voi”».

E le persone lo hanno fatto, lo fanno: «Ed è per questo che il mondo sta ancora in piedi. Il coraggio e l’umanità di alcuni permette ad altri di non vomitare quando si guardano allo specchio» (Ertzscheid).

Il tutorial come ingiunzione politica

Visto che i tutorial ci sono, che aspettiamo? «Fabbricate le vostre maschere, fabbricate i vostri respiratori. Il DIY è diventato una politica di Sanità Pubblica». “Fatelo voi” e fatelo anche per gli altri.

Questa realtà ci pone (ci dovrebbe porre?) un problema, perché si sta sedimentando, come un dato, un’abitudine, una normalità.

«E con questa realtà si installa l’idea che l’incuria dello Stato potrebbe essere compensata dagli sforzi di ognuno di noi, idea tanto tossica quanto quella che afferma che lo Stato può fare tutto. Lo Stato non può fare tutto, ma noi (i cittadini) nemmeno. Perché al di là dello Stato e dei cittadini, si tratta di una questione di politica. In questo caso di Sanità pubblica, di accesso alle cure, di cura dei più deboli, di diritto alla casa e di tanto altro».

Questa è politica. Nel senso più pieno del termine. Perché ci parla di responsabilità e partecipazione e, secondo me, fa parte del brodo culturale con la quale politicamente e culturalmente questa Pandemia è stata gestita.

Chi è responsabile? Di cosa?

Il Senato francese ha approvato, nel quadro delle leggi che regolano lo Stato di Emergenza sanitaria, un emendamento che esclude la responsabilità penale dei sindaci nel caso di contaminazione da Covid19. Il testo, che non fa l’unanimità, è partito da una lettera aperta di alcuni deputati e senatori LREM (La République en marche, il partito di Macron).

Questo testo è suo malgrado necessario perché sui sindaci pesa una responsabilità enorme. Perché? Perché, per esempio, l’apertura delle scuole si fa su base volontaria, da parte dei genitori da un lato, e da parte della scuola e delle autorità locali dall’altro. I genitori possono scegliere se mandare il figlio o meno (possono scegliere veramente? Tutti?) e i presidi, così come i sindaci, devono vegliare a che il protocollo sanitario necessario alla riapertura delle scuole venga rispettato.

Si tratta di un documento di 60 pagine (quello per le scuole elementari e dell’infanzia, per esempio) che spiega come gestire gli spazi, come e quando disinfettare, che distanza tenere tra i banchi, in mensa, nei corridoi; inoltre questo documento detta le norme alle quali devono attenersi i bambini e gli insegnanti.

Per esempio, bambini di 4 anni devono tenersi a distanza, non usare gli stessi giocattoli o lo stesso materiale (penne, colori, etc..), devono vestirsi e svestirsi da soli (perché le maestre non li possono toccare), lavarsi le mani prima di entrare in classe, alle pause, prima e dopo aver mangiato e dopo aver starnutito, tra le altre cose. Come rispettarne l’applicazione?

Questo volontariato, questa libertà lasciata alle famiglie e alle scuole rispetta i cittadini o serve, almeno in parte, a giustificare una politica che non si sta prendendo delle responsabilità?

«Nessuno sa come sarà il dopo. Ma sappiamo tutti che sarà politico» (O. Ertzscheid)

Articolo originale, note e fonti qui; fa parte di una raccolta note sul confinement. 

La foto di copertina viene da un tutorial su YouTube: How to make a Plague Doctor Mask DIY di DieselpunkRo

TAG: #Coronavirus #Covid19
CAT: costumi sociali

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