Addio Giulio Giorello. Qualche riflessione a partire dal tuo andartene

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17 Giugno 2020

Addio Giulio,

te ne sei andato più silenziosamente e tranquillamente di come mi avevi abituato. Pensavo avresti superato il cancello della vita con il tuo passo sbilenco, con la tua sacca sgualcita piena di vestiti e libri, con la tua cravatta sempre macchiata di qualche cibo più o meno appena consumato, con in mano un bicchiere di whisky e mentre sarcasticamente commentavi l’agire di un collega.  Te ne sei andato, invece, in punta di piedi sorprendendoci tutti e rammaricandoci che tu non ci sia più a farci notare quanto nell’ultimo numero di Topolino vi siano delle intuizioni filosofiche sulla vita e sulla scienza.

Permettimi di approfittare di questo tuo andartene per iniziare una riflessione sullo stato della nostra filosofia che spero qualcuno abbia voglia di continuare.

Tu sei stato, forse, il miglior esempio di una generazione di filosofi italiani che ha permesso alla generazione seguente (la mia) di conquistare il mondo, anche se pare che nessuno qui da noi se ne sia accorto.

Lasciami ricordare la grande filosofia italiana che rifletteva sulla scienza prima della II Guerra Mondiale. Avevamo F. Enriques, avevamo G. Peano, avevamo G. Vailati, solo per citarne alcuni. Essi facevano da contraltare a pensatori come B. Croce e G. Gentile, che della scienza avevano una pallida e bizzarra idea. Poi la guerra, e l’originalità del contributo italiano si perse.  Finito lo scempio iniziato dal nazi-fascismo, venne il tempo di quei pochi, come V. Somenzi, L. Geymonat e A. Pasquinelli, che tentarono, con capacità diverse, caratteri diversi e impatti diversi, di riportare in Italia il pensiero dei filosofi della scienza anteguerra. Fu un periodo – seppur tardivo – di rialfabetizzazione epistemologica basata sulla divulgazione e traduzione degli scritti di P.W. Bridgman, H. Reichenbach, M. Schlick, R. Carnap e soci neopositivisti e post-neopositivisti.

Fu questa prima generazione, cui poi si aggiunsero pensatori leggermente più giovani come E. Agazzi, che riuscì a fondare le cattedre di filosofia della scienza.

E poi venne la tua generazione; e vennero i somenziani, i geymonattiani, gli agazziani e i pasquinelliani.

Mi piace ricordare i tuoi due compagni del primo parto geymonattiano: E. Bellone, ottimo divulgatore di storia della scienza, e S. Tagliagambe, il più originale fra voi. Foste una generazione di mezzo che non si staccò troppo dall’intento di portare in Italia il pensiero soprattutto proveniente dall’area anglo-sassone (ma con incursioni in terra russa da parte di Tagliagambe) e che purtroppo si preoccupò assai meno di andare al di là delle Alpi a produrre pensiero originale. Così arrivò il tempo che l’Italia conobbe – seppur con qualche decennio di ritardo e seppur in modo troppo monotematico – la filosofia della scienza generale di K. R. Popper, Th. S. Kuhn, P.K. Feyerabend e di I. Lakatos. Tu ne fosti cantore magno per capacità di lettura e di critica splendide. Ma quante volte abbiamo scherzato sui popperiani italiani più popperiani di Popper, sui kuhniani italiani più kuhniani di Kuhn, sui feyerabendiani italiani più feyerabendiani di Feyerabend? Erano colleghi tuoi – più o meno amici – ma non lesinavi beffarde stoccatine velenose sulla loro incapacità di andare al là del loro idolo.

Poi tutto scoppiò e nacque la mia generazione che se ne fece un baffo del riportare il pensiero di altri e andò a confrontarsi con il mondo per proporne uno proprio. Una generazione che smise di occuparsi di filosofia della scienza generale – ormai pressoché già morta da anni a livello internazionale per aver esaurito i problemi interessanti da affrontare – e che si avvicinò alle filosofie delle scienze speciali: filosofia della fisica, della matematica, della biologia, della medicina, delle neuroscienze, dell’informatica ecc. E ora abbiamo italiani che non hanno alcun  timore reverenziale nei confronti degli anglo-sassoni e che costruiscono pensiero occupando posizioni strategiche nel mondo accademico internazionale. Una generazione poco conosciuta in Italia, ma conosciuta in Germania, in Francia, in UK, in USA, ….

Certo – lo so – non ti è mai piaciuto molto ammettere e commentare questo balzo internazionale che vedevi da lontano e forse nemmeno coglievi nella sua portata. Come forse non hai mai digerito che fu affidata a me e non a te la voce “Filosofia della scienza” nella nuova edizione (curata da E. Bellone) del 1997 (sic!) della Storia del pensiero filosofico e scientifico di L. Geymonat. Però quante volte abbiamo amaramente e sarcasticamente commentato – davanti al secondo o terzo buon whisky – la tristezza di parrocchiali cascami pseudo-heideggeriani di molto “pensiero” italiano ammantato di paroline in tedesco (anche da chi non saprebbe ordinare birra e würstel in una birreria di Monaco), da usi di trattini che dovrebbero celare il profondo, da sintassi che violano ogni principio di chiarezza espositiva. Quante volte abbiamo celiato sulla versione maccheronica del post-modernismo e del post-post-modernismo di scritti di assoluta retroguardia di alcuni colleghi, o sulla versione italica del bio-filosofismo di chi di bio non sa assolutamente nulla, ma che – poco sorprendentemente tenendo conto la deriva culturale del paese – viene letto e ascoltato. Quante volte abbiamo bevuto alla salute dei nostri scimmiottatori dei filosofi analitici anglo-sassoni, il cui problema principale era capire se fosse vero se la proposizione “Il gatto è sul tavolo”  fosse vera e che confondevano la storia della filosofia analitica, che praticavano, con la riflessione originale in ambito filosofico, che non praticavano.

Ora, Giulio, anche grazie alla tua generazione di mezzo, un foltissimo gruppo di pensatori italiani produce pensiero e pubblica – cosa impensabile fino a una trentina d’anni fa – nelle migliori riviste internazionali. Eppure, duole constatare che essi non siano né conosciuti, né riconosciuti in un paese dove regna il filosofo del banale che frequenta solo festival. E, lasciamelo dire un po’ criticamente, non hai mai usato il tuo ruolo a livello mediatico per parlare e diffondere la notizia di questa fondamentale presenza italiana nella costruzione di pensiero originale.

Anche tu sei stato un frequentatore di festival, ma lo hai fatto con un tuo stile leggero e ironico di andare ovunque ti chiamassero a parlare alla tua maniera di scienza e di libertà. Hai forse dato troppo di te stesso e troppo generosamente a una tale occupazione, che ti ha fornito notorietà ma ti ha logorato, anche intellettualmente. Hai sempre risposto positivamente a ogni richiesta di conferenza e molte volte te ne sei trovate anche due in agenda nello stesso giorno ma in due città diverse. Talvolta sei riuscito a onorare entrambi gli impegni, talvolta uno l’hai dimenticato. La tua presenza è sempre stata una divertente incognita per gli organizzatori. Troppi impegni non necessari ti hanno consumato e hanno consumato la tua mente brillante. Troppi impegni non necessari. Una volta – ricordo – avevi una conferenza alle 15 del giorno 18 di un mese e tu ti sei presentato alle 18 del 15 dello stesso mese. Troppi impegni non necessari ti hanno consumato e hanno consumato la tua mente brillante. Ma forse non saresti stato più quello che sei stato: un ambasciatore della riflessione filosofica sulla scienza, o almeno di certa riflessione.

Non hai mai detto sciocchezze: i tuoi riferimenti scientifici erano sempre esatti e la tua prodigiosa memoria ti ha aiutato nel fare citazioni puntuali che non mancavano mai, però, di tributare il giusto a uno dei tuoi pallini: l’Irlanda del Nord. Di qualunque cosa tu dovessi parlare – e tu parlavi di tutto – prima o poi l’Irlanda del Nord veniva fuori.

Non solo non hai mai detto castronerie scientifiche – a differenza dei troppi “filosofi” che specie in questo tempo di COVID 19 si sono spesi in cialtronate inaudite e inaudibili – ma, a differenza di molti dei colleghi della tua generazione e di quella precedente, non hai mai fatto neppure grosse schifezze accademiche. Anche in questo caso sei stato lieve. Anzi, devo in parte a te la mia carriera.

Ero un giovane associato entrato in una commissione d’esami che si teneva a Genova. Si aspettavano che seguissi gli ordini di scuderia e promuovessi i già decisi, ma l’indole mi spinse per lottare per i più meritevoli. Come sai, ci riuscii; ma fui oggetto di ostracismo da parte di più di qualcuno dei potentati di allora, tanto che quando venne il mio turno a presentarmi a un concorso per professore ordinario, quello che avrebbe dovuto essere il mio mentore – che a parole si professava cattolico liberale e votato alla meritocrazia – mi disse esplicitamente che mi ero giocato il futuro e che avrebbe appoggiato un signore famoso per aver inserito in un suo testo, “sfortunatamente”, una decina di pagine di un classico come se fossero sue. D’altronde l’ostracismo accademico mi era già stato promesso da un ex-supposto-prodigio dalla produzione del tutto nulla avendo più interesse per il “tramacio” che per la filosofia. Era un giovanotto che nonostante lo scarso curriculum fu miracolato dal mentore di cui sopra, che molti altri danni ha causato alla comunità filosofica italiana. E tu sai di chi parlo.

Ma venero due “angeli geymonattiani”, ossia tu e Tagliagambe; vi prendeste carico di me e convinceste altri membri di una commissione che ero pronto al soglio. E così fu. Non ero allievo vostro; non ero geymonattiano. Ma voi, contro ogni uso dell’epoca, mi aiutaste.

Grazie a quel concorso cui partecipai come commissario e grazie al vostro intervento “extra-moenia”, tutte le idiozie dell’appartenenza a una data scuola saltarono come prassi usuale nella distribuzione dei posti e ora sono scomparse (più o meno) per lasciare spazio alla trasparenza e alla competenza.

La generazione seguente alla tua, ossia la mia, non solo ha imparato a colloquiare a livello internazionale ma ha anche imparato che la pulizia accademica è fondamentale. Certo, tutti noi “più anziani” siamo stati più o meno coinvolti in situazioni non facili da gestire – è inutile negarlo; d’altronde questa è l’Italia; ma quasi tutti noi adesso siamo consapevoli di che significhino la qualità filosofica e la dignità dei ricercatori giovani. Insomma, abbiamo cercato di lavorare e stiamo lavorando nel miglior modo possibile.

Ti lascio, ora, al resto della tua camminata verso non so dove. Ti dicevi ateo e spero tu abbia avuto ragione nel pensare che non esiste un Dio e che non esiste un al di là. Altrimenti sarebbe un divertente e beffardo casino. Ma tant’è: non chi vivrà vedrà, ma chi morirà vedrà. Comunque sia, sapendo della tua andata, in serata ho aperto una bottiglia di whisky irlandese e l’ho bevuta alla tua memoria.

TAG: Cultura, Filosofia italiana, Giorello, Università
CAT: costumi sociali, Filosofia

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