Sul corpo di Pamela: qui Macerata, dove la Lega adesso ha il 40%

29 Maggio 2019

You learned so many feelings but what is there to that
Which are really yours or are you just a copycat?
(Dead Kennedys – Your Emotions)

Il corpo di una ragazza di diciotto anni fatto a pezzi, sistemato in due valigie e abbandonato su una strada provinciale. Droga. Magia nera. Cannibalismo. Mafia nigeriana.
Il delitto di Pamela Mastropietro è un concentrato di sceneggiatura noir, tabù, fantasmi e paure molto di moda nell’Italia della fine degli anni dieci del ventunesimo secolo.
I fatti si raccontano in poche righe: il 29 gennaio del 2018 la diciottenne romana Pamela Mastropietro si allontana volontariamente dalla comunità Pars di Corridonia, in provincia di Macerata, il 31 gennaio il suo corpo viene ritrovato fatto a pezzi in due valigie nella canalina di scolo ai lati della carreggiata di via dell’Industria a Casette Verdini di Pollenza. Per il delitto vengono arrestati tre uomini, tutti nigeriani: Innocent Oseghale, Desmond Lucky e Lucky Awelima. Questi ultimi due saranno in breve prosciolti dall’accusa di omicidio ma rimarranno comunque in carcere per spaccio. La ricostruzione fatta dagli inquirenti racconta di un incontro tra Pamela e Innocent, con lei che va a casa di lui, e lì lui la ammazza a coltellate. Poi fa a pezzi il corpo, lo mette in due valigie, chiama un taxi, lo fa fermare a Casette Verdini e lì scarica il tutto. Cosa è successo nella serata incriminata? Per la procura di Macerata, Innocent avrebbe dato due coltellate al fegato di Pamela dopo averla violentata, per gli avvocati difensori dell’imputato, Pamela sarebbe morta di overdose e poi Innocent l’avrebbe fatta a pezzi per disfarsi del corpo.
Mercoledì 29 maggio 2019: ultima udienza del processo contro Innocent Oseghale. La procura chiede l’ergastolo, o in alternativa trent’anni, qualora non venisse riconosciuta la violenza sessuale.

[Ho cominciato a fare il cronista quando avevo 19 anni. Uno dei primi incarichi che mi diede la mia capa di allora fu di andare da una madre per chiederle la foto della figlia appena morta in un incidente d’auto. Si comincia sempre così a fare questo mestiere: bisogna capire come l’aspirante cronista si comporta davanti al dolore e alla crudeltà. In assoluto non è necessario farlo, d’altra parte sui giornali non c’è solo la cronaca, si può diventare tranquillamente ottimi giornalisti sportivi, o politici, o culturali e lasciar perdere le disgrazie che tutti i giorni accadono e di cui qualcuno dovrà pur scrivere. Se però si decide di lanciarsi nel mare della cronaca nera, bisogna imparare presto ad avere a che fare con i disastri degli altri. Un vecchio nerista allora in servizio nella redazione in cui ero appena entrato – un tipo che aveva fatto la giudiziaria per decenni e che in quel periodo, giunto al termine della sua carriera, passava le giornate a correggere e titolare pagine di provincia, oltre che a fumare una Chesterfield dietro l’altra e a maledire le donne, il tempo e il governo – mi diede l’unico consiglio giusto che si può dare a un cronista che per la prima volta viene spedito a fare qualcosa di poco meno che spaventoso: non farti mai coinvolgere dal dolore degli altri, lascia che ti scivoli addosso, rispettalo ma non te lo portare dietro. È uno sporco lavoro, eccetera. E comunque, dopo un po’ ci si abitua e si sviluppano qualità non sempre rispettabili (né tantomeno rispettate) ma utilissime: la famosa ironia macabra di chi ha a che fare con morti ammazzati più volte alla settimana. Non solo cronisti, ma anche sbirri di un certo tipo e medici legali. Ironia macabra che spesso sfocia nel cinismo o in un apparente disinteresse di fronte a situazioni che, in linea teorica, dovrebbero avere conseguenze emotive.
È così che, quando incidentalmente mi sono occupato del caso Mastropietro – in realtà ero più concentrato su una storia collegata: la strage di Luca Traini – un altro vecchio cronista disse quella che ancora mi pare la frase definitiva sulla vicenda: «È una storiaccia di tossici».]

Anche se può non sembrare, c’è del rispetto in questa affermazione. Il rispetto di chi le «storiacce di tossici» le conosce davvero, e spesso ne conosce i protagonisti, i sottotesti e le verità che non si possono scrivere. Dietro la propaganda sul caso Mastropietro – ci arriviamo – c’è una verità che tutti fanno finta di non vedere: se Pamela fosse ancora viva, chi oggi finge di piangerla, chi si indigna nelle trasmissioni del pomeriggio o sui giornali, chi chi invoca vendetta, così la descriverebbe: una tossica. Una di quelle ragazze da scansare sugli autobus, da ignorare quando collassano su una panchina, da segnalare alla polizia se si aggira di notte sotto casa. E invece è morta, in maniera tragica ed estremamente violenta. E l’assassino è un immigrato, uno spacciatore per di più. Perché lo sappiamo tutti: nel paese in cui ogni settantadue ore una donna viene ammazzata, il caso Mastropietro è esploso perché l’assassino ha la pelle nera.
Dite che è un’esagerazione? Va bene, allora raccontiamo un’altra storia: una settimana dopo il ritrovamento del corpo di Pamela in provincia di Macerata, a Milano il 39enne Alessandro Garlaschi uccide la 19enne Jessica Faoro con ottantacinque coltellate. Nel dicembre del 2018 Garlaschi viene condannato all’ergastolo. Quanto avete sentito parlare di questa storia? Quanti interventi di Matteo Salvini? Quanti di Giorgia Meloni? Quanti picchetti di Forza Nuova? Quanti comunicati di Casapound? Quanti striscioni per la vittima piazzati fuori dal tribunale? Quanti articoli su Libero? E su La Verità? E sul Giornale? La risposta è zero. O al limite poco, poco, poco. Quindi zero in un’epoca in cui le notizie viaggiano di post in post, di tweet in tweet, di story in story, a ciclo continuo.

Perché? La risposta più semplice è quella di prima: l’assassino ha la pelle nera. La parte complessa riguarda il come si arriva a questa risposta. Ed è un percorso lungo, studiato, costruito, voluto, assemblato pezzo dopo pezzo da una macchina della propaganda spaventosa, un sistema che utilizza la cronaca nera come grimaldello per entrare nel cuore, nello stomaco e nel cervello delle persone.
Ricordate la storia della bugia che, ripetuta mille volte, diventa verità? Anche questa è un’esagerazione? Forse. Ma allora come ci spieghiamo i centinaia di articoli che parlavano di cannibalismo e magia nera come centri nevralgici del caso Mastropietro? È stato scritto di tutto, addirittura che il cuore della vittima fosse sparito perché Oseghale l’aveva mangiato nell’ambito di un rito riconducibile alla mafia nigeriana. Che il cuore della ragazza non fosse sparito – cosa chiarita a più riprese dal medico legale che ha effettuato l’autopsia – non conta niente. E quando pure l’evidenza delle prove depositate in tribunale rende impossibile il perpetuarsi di questa menzogna, ecco che si passa ad altro. Sulla Verità del 20 marzo scorso appare un articolo a firma di Carlo Cambi così intitolato: «Ho visto le foto di Pamela fatta a pezzi, sembra magia nera». Ecco, un’altra cosa che dicono i vecchi cronisti è che nessuno ti paga per sbattere i tuoi dubbi sul giornale, perché bisogna scrivere soltanto di cose che si possono dimostrare. Qui invece siamo all’opinionismo sulle autopsie: Cambi l’ha vista e a lui – evidentemente esperto di certe cose, non vogliamo sapere – gli è sembrato proprio un rito voodoo. Che poi tutti i cronisti avessero visto le stesse foto e non fossero giunti a quelle conclusioni, non è importante. Un inciso chiarificatore: ogni cronista di nera ha visto decine di autopsie – e sono tutte orribili da guardare – entrare nei dettagli è una cosa da film splatter non da giornalisti. A cosa serve farlo? A raccontare la storia? A fare informazione? No, serve a scandalizzare il lettore: scrivere il numero di pezzi a cui è stato ridotto il corpo di Pamela, indulgere sulla profondità delle ferite e sulla condizione degli organi interni è propaganda pura. Serve ad aggiungere mostruosità alla mostruosità di un omicidio, serve a rendere una storia tremenda una storia ancora più tremenda, indigeribile, turpe. Serve a dare addosso all’assassino, in teoria innocente fino al terzo grado di giudizio, ma in pratica reso repellente a chiunque con il disvelamento dei dettagli del suo delitto. È utile ripeterlo: tutti i delitti sono orribili, in tutti c’è il sangue, in tutti c’è la violenza, in tutti ci sono dettagli che fanno vomitare e che provocano sincero orrore in chi li apprende. A livello deontologico è sconsigliatissimo raccontarli tutti per filo e per segno: dire che il corpo di Pamela è stato fatto a pezzi messo in due valigie dovrebbe bastare. Aggiungere che i pezzi sono ventiquattro e descrivere lo stato di decomposizione dei tessuti è necrofilia.

E quello di Cambi sulla Verità è solo un esempio. Di pezzi simili ne sono usciti a decine, in televisione si è discusso per centinaia di ore di queste cose, «criminologi» (tra virgolette molto grandi) come Alessandro Meluzzi ne hanno parlato in ogni modo, con rabbia più che con dolore. E gli applausi dello studio – perché adesso si applaude anche quando si parla di morti ammazzati – sono sempre per la foga con cui vengono espresse le opinioni più che per il fatto in sé, perché nessuno vuole giustizia, come siano andate davvero le cose non interessa a nessuno, l’importante è che ci sia una vendetta-tremenda-vendetta, un momento di catarsi in cui il cattivo della vicenda riceve finalmente quello che merita, in maniera dura e implacabile, con ferocia e violenza.
E più si va avanti, più si aggiungono particolari. Veri, inventati, verosimili, ipotizzabili. È tutto uguale: la magia nera è collegata alla mafia nigeriana. Perché? Non si sa. Però adesso a Macerata c’è un’emergenza legata allo spaccio di eroina e alla mafia nigeriana. Chi lo dice? Qualche politico in eterna campagna elettorale e un questore-sceriffo arrivato in città dopo che il precedente era stato rimosso perché aveva autorizzato una manifestazione antifascista. Che poi il consumo di eroina a Macerata sia in linea con quello di tutta la provincia italiana non fa niente. Come non conta niente il parere di un ispettore di polizia che davanti al cronista afferma: «Ma secondo te, in un paese che ha quattro mafie autoctone, davvero sono i nigeriani a gestire un’attività redditizia come lo spaccio?». Che poi, beninteso, la mafia nigeriana esiste e ha attività anche in Italia (sono segnalate su Wikipedia, per dire) ma nessuno che abbia un minimo di dimestichezza con gli uffici giudiziari italiani e il loro lavoro affermerebbe che questa sia più potente di Cosa Nostra, della Camorra o della ‘ndrangheta (che tra l’altro proprio nelle Marche è arrivata in grande stile, ammazzando a colpi di pistola un pentito a Pesaro, il giorno di Natale del 2018).

Cosa resta? È mercoledì 29 maggio 2019: la procura ha chiesto l’ergastolo per Innocent Oseghale. La sentenza è attesa a breve. Ma è un dettaglio che non interessa a nessuno: se sarà ergastolo il pubblico potrà ritenersi (mediamente) soddisfatto, se sarà qualcosa meno allora si potrà gridare allo scandalo. Non conteranno prove e motivazioni, non conteranno autopsie e perizie, non conteranno testimonianze e indizi. È andata così. E non spaventa tanto il fatto che la Lega ormai sia stabilmente il primo partito a Macerata, dove è passata dallo zero al quaranta percento in cinque anni. Spaventa che tutto questo sia stato costruito con metodo e pazienza. Perché questa tempesta passerà, ma la prossima sarà anche peggio. Ci saranno altri tempi e altri luoghi, altri protagonisti e altri antagonisti, altri corpi e altri orrori. La sete di sangue non passa mai.

(Foto: via)

TAG: cronaca nera, Innocent Oseghale, Macerata, Pamela Mastropietro, processo
CAT: Criminalità

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