Poveri e ammalati: sono i carcerati italiani

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18 Ottobre 2016

Chiediamo pene detentive sempre maggiori per ogni reato, ma allo stesso tempo pensiamo che la galera sia una sorta di scuola del crimine. “Ora la grande emergenza sarebbe la radicalizzazione in carcere, cioè i detenuti musulmani che incontrano predicatori vicini allo Stato islamico e si estremizzano”, spiega Alessio Scandurra, responsabile dell’osservatorio sulle condizioni di detenzione dell’associazione Antigone.

Il carcere dunque non è sempre la soluzione. Eppure i detenuti sono ancora tanti, 54mila, e il 70% di loro, statistiche del ministero della Giustizia alla mano, appena esce torna a delinquere. Mentre sono in galera “non fanno granché tutto il giorno – prosegue Scandurra – e quindi non solo non compiono nulla di costruttivo per sé e per gli altri, ma nemmeno attività elementari, come il bucato o la spesa. Hanno bisogno sempre di chiedere che qualcun altro faccia per loro. È un luogo infantilizzante, trasforma l’adulto in bambino. Per certi aspetti è quanto di più lontano dalla rieducazione, perché prendi persone particolari, le metti insieme solo loro a fare niente e pretendi che escano migliori di quando sono entrate”. Svuotare le galere quindi non vuol dire riversare criminali in strada perché, spiega lo studioso, “la criminalità è decrescente da tanto tempo e comunque non è direttamente collegata ai numeri della popolazione detenuta”.

E poi è sempre emergenza carceri, tanto che una teoria abbastanza diffusa vuole che ciò sia voluto, in modo da giustificare le periodiche amnistie e gli indulti, che sarebbero a vantaggio per lo più dei colletti bianchi, cioè di chi commette reati in politica o nella finanza. “Questa è un’ipotesi suggestiva e capisco possa colpire, ma non ci ho mai creduto – ribatte il responsabile dell’osservatorio di Antigone – La verità è che tutta questa materia per molti anni è stata governata poco, quindi c’era poco di voluto. Ogni volta che si crea una qualunque emergenza del vivere civile la risposta è penale, con l’introduzione di un nuovo reato o l’inasprimento delle pene esistenti, in modo da riempire le carceri, ma senza preoccuparsi del dopo. Quindi l’emergenza è figlia di nessuno”.

Nemmeno l’Unione europea, sempre pronta a tirarci le orecchie per qualunque cosa, può farci più di tanto, perché “neppure lei ha la coscienza pulita – prosegue Scandurra – Tanti paesi, oltre al nostro, hanno avuto condanne da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo (organo giurisdizionale internazionale che non fa parte dell’Ue, Ndr), come Belgio, Bulgaria, Francia e Ungheria, tutte con motivazioni diverse. Quindi c’è una consapevolezza del problema, dopodiché la sicurezza e la giustizia penale sono materie in cui gli Stati sono più gelosi della propria sovranità, perciò tradizionalmente è più difficile per l’Ue intervenire”. Eppure qualcosa in Italia sta cambiando, proprio grazie alla Corte europea dei diritti dell’uomo, quando ha emesso la sentenza Torregiani, condannando il Belpaese per sovraffollamento. Lo Stato avrebbe potuto ignorarla e invece ha reagito positivamente: oggi, rispetto al 2010-2011, ci sono circa 15mila detenuti in meno.

Ma chi sono i carcerati? In gran parte italiani, maschi, poveri e ammalati. Italiani perché gli stranieri sono solo un terzo del totale. Maschi perché le donne carcerate sono solamente 2.300. Poveri perché sempre più la galera è l’estrema ratio, per cui vanno dietro le sbarre tutti i condannati che non hanno una casa in cui stare agli arresti domiciliari. Ammalati perché ancora troppo spesso viene negato loro il diritto alla salute. Tre dati tra tutti: in Italia l’epatite C riguarda 7,4% dei carcerati contro il 2% delle persone libere; l’Hiv, il virus responsabile dell’Aids, colpisce il 2% di loro contro lo 0,2% di chi è fuori dalle sbarre e di tubercolosi sono ammalati lo 0,6% dei detenuti quando l’incidenza in libertà è di meno dello 0,01%. “In carcere – spiega l’esperto – tutto funziona male perché c’è la convinzione che chi è lì se lo è meritato e questa visione si estende su cose che non c’entrano nulla, come appunto il diritto alla salute o a vedere più spesso i propri affetti. Ma questa concezione colpisce anche gli innocenti: cosa c’entrano genitori, coniugi e figli che devono attendere magari ore sotto la pioggia per vedere i loro cari? La persona detenuta ha diritto a una sua dignità”.

In questo quadro drammatico, merita parlare della ancor più triste condizione delle donne carcerate: “Sono la marginalità più forte – spiega l’esperto – Siccome è più difficile che finiscano dietro le sbarre, quelle a cui capita sono le più marginali, quelle con meno risorse, sociali e materiali. Il dato è ancora più evidente se si guarda ai i minori: le ragazzine detenute sono tutte Rom, mentre i ragazzini sono o meridionali o stranieri. Le carcerate sono più colpite dalla tossicodipendenza e dal disagio psichico. Poi generalmente le galere femminili sono luoghi tranquilli, con meno pressioni per la sicurezza e più cura dei propri spazi. Sono posti più di grande sofferenza che di grande tensione. Un mare di detenute sono mamme separate dai figli e i colloqui sono penosi soprattutto per i bimbi: trovare qualcuno che li porti lì, le lunghe attese, gli orari di visita che spesso coincidono con quelli di scuola”.

Questa massa sofferente di persone che chiede solo di sopravvivere ricade tutta sulle guardie carcerarie. “Quello della polizia penitenziaria è un lavoro terribile – afferma secco Scandurra –Ho fatto il volontario in carcere per tanto tempo e ho visto i poliziotti convivere con un livello di patimenti molto elevato. Loro sono il primo terminale di tutte le sofferenze, le domande e i bisogni delle persone detenute, alla maggior parte dei quali devono rispondere sempre no, non è permesso, non è previsto, non ci sono i fondi. Sindrome da burn out, alcolismo e suicidi sono molto elevati tra la polizia penitenziaria rispetto agli altri cittadini. Per tanto tempo è stata lasciata sola davanti alla popolazione detenuta che aumentava continuamente. Ma devo dire che anche nelle guardie carcerarie c’è una certa resistenza al cambiamento come in molte amministrazioni e quindi a conservare questo sistema, che per molti aspetti non funziona, uguale a se stesso. Oggi per fortuna anche loro stanno cambiando in meglio: noi dell’associazione lo vediamo persino nell’atteggiamento verso il nostro osservatorio. Tempo fa quando visitavamo le galere ci nascondevano le criticità, facendoci vedere solo quello che funzionava; ora è l’opposto perché vogliono che denunciamo”.

Il cambiamento quindi è in atto e non deve essere fermato: “Visto che è il momento giusto – conclude Scandurra – che il vento è cambiato, chiediamo riforme soprattutto in materia di salute, di incontro con i familiari, di comunicazione con l’esterno. Ad esempio gli orari e le modalità dei colloqui sono aggiornati agli anni ’70, sebbene oggi viviamo tutti iperconnessi. Sono tanti elementi di civiltà che la politica non può più rinviare”.

TAG: carcere, polizia penitenziaria
CAT: Criminalità, diritti umani

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