Giuliano Ferrara ha ragione, quella di Roma non è mafia

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12 Dicembre 2014

Gran frastuono attorno alle dichiarazioni sul terremoto “Mafia Capitale” dell’esplosivo Giuliano Ferrara, testa di legno del giornalismo italiano e autentico ammiccatore di polemiche, regnante in quell’iperuranio dove il folklore, il colore, la parola vuota vincono sempre sul concetto vivo del messaggio: «Dove sono i morti? –chiede il Direttore del Foglio parlando dell’inchiesta romana durante la puntata di Ballarò- Se c’è la mafia, voglio i morti sul selciato. Sennò che mafia è».

Questa è la frase principale, oserei l’unica, del Ferrarapensiero. In aggiunta, un corollario di provocazioni che non hanno veri e propri messaggi, ma solo allusioni: «A Roma – rincara – nessuno paga il biglietto dell’autobus. E, allora, chi non fa il biglietto è come Massimo Carminati».

Ora, il mondo della comunicazione è davvero un universo troppo grande e mutevole per provare a parlarne in un pezzo, è un mondo la cui energia vitale ha origine da quello che possiamo definire il Mondo di Sopra, trova la sua direzione nel Mondo di Mezzo e scende a cascata su quello di Sotto. Detto questo chiunque può facilmente credere che uno come Ferrara in quel mondo pascoli da tempo, e poco importa di che colore sia stato il suo foraggio, perché i pascoli son sempre quelli lassù, dove la lana è sempre lana di prima qualità.

L’impressione però – scansando per un attimo lo sgomento sui toni- è quella dell’acqua sorgiva di un discorso molto acuto, racchiusa nel quesito posto da Ferrara sulla corretta nomenclatura mafia/non mafia che comunque non bagna nessuno, scivolando sul K-way dell’assuefazione ai volti riconosciuti, tale da arrivare ad offuscare il “che cosa” con il “chi”. Per intenderci se parla Ferrara non si discute mai sulle parole ma sulle parole di Ferrara, si aggiunge il folklore proverbiale della caricatura finendo poi inevitabilmente a parlare di Ferrara ma trascurando le parole, nonostante più di qualcuno in passato abbia detto che sono “importanti”.

La parola “mafia” ad esempio deriva – secondo Corrado Avolio nella sua “Introduzione al dialetto siciliano”– da “mahyas”, ossia spacconeria. Da questo (nonostante alcuni sostengano che sia un acronimo di “Mazzini  Autorizza Furti Incendi Attentati” risalente all’età postborbonica) si può evincere come su un concetto perlomeno etimologico il parallelismo con l’inchiesta romana possa esserci. Quel che però non convince è l’evoluzione semantica che la parola mafia ha avuto nel corso dei secoli, finendo per identificare uno specifico tipo di organizzazione malavitosa disegnata con peculiarità ben precise. La prima volta che la parola fece comparsa su un documento ufficiale fu nel 1865, quando il Prefetto di Palermo Filippo Gualtieri definì la mafia una «associazione malandrinesca» che aveva come attività principale la diplomazia col mondo politico.

E fin qui, come detto, ci siamo: la mafia è una associazione a delinquere con scopi di lucro che usa la sua influenza sul mondo politico seguendo un movimento ascensionale: si parte dal territorio, dal basso, e si arriva in alto. Non per potere, che nella mafia è già costituito, ma per sete di denaro: il potere per la mafia è un mezzo e non un fine.

Da quel che emerge invece sull’inchiesta di Roma, il movimento criminoso assume direzioni diverse. Secondo le carte della Procura l’apparato politico-istituzionale non è soltanto corrotto dalla mafia, ma corrompe e delibera. Il movimento del crimine è discensionale, parte dall’alto e s’incontra nel Mondo di Mezzo con varie realtà (mafia siciliana, criminalità romana, eversione nera, ‘ndrangheta, colletti bianchi, salotti). Il rapporto è di collaborazione e non di dipendenza, anche perché altrimenti la struttura dell’inchiesta – in un paese da decenni abituato alla lotta alla mafia- avrebbe assunto i crismi dell’Investigazione Antimafia, la cosiddetta DIA, che però ha compiti e facoltà differenti e più specifici rispetto ad un’inchiesta ordinaria. Si legge a proposito della DIA sul sito del Ministero dell’Interno:

«Tra gli obiettivi strategici perseguiti, assume particolare rilievo per la sua attualità quello del contrasto alla forza economico-finanziaria della criminalità organizzata, che viene sviluppato con più strumenti ed in diverse fasi. In tal senso notevole rilevanza è attribuita all’aggressione agli ingenti patrimoni illecitamente accumulati, che, attraverso uno specifico percorso normativo, sono restituiti all’utilità collettiva, ed al contrasto della penetrazione nel tessuto economico ed imprenditoriale con effetti distorsivi della libera concorrenza: in quest’ultimo settore particolare attenzione è rivolta, d’intesa con le Prefetture – Uffici Territoriali del Governo, ad evitare l’infiltrazione negli investimenti pubblici.»

Dunque in caso di inchiesta sulla mafia la DIA si assume l’incarico di aggredire patrimoni attraverso confische, e decidere misure cautelari di sicurezza che di solito partono in simultanea con i primi arresti.

Nell’inchiesta sul Mondo di Mezzo nessuno ha ancora acclarato simili procedure, anzi forte è stato il richiamo della stampa verso l’universo Tolkeniano e quella “Terra di Mezzo” che fa tanto campo semantico ogniqualvolta si tratti di neofascismo, cultura runale, Campi Hobbit  e terze posizioni varie.

In realtà per trovare l’etimologia dell’espressione bisognerebbe andare fino al 1855:

«demi-monde ‹dëmì mõd› s. m., fr. [comp. di demi «mezzo» e monde «mondo, società mondana»]. – In riferimento al sec. 19°, la società equivoca della quale fanno parte donne di ceto inferiore, i cui facili costumi suscitano scandalo negli ambienti benpensanti e di classe superiore dove la loro spregiudicatezza le porta a vivere. L’espressione deriva dal titolo di una commedia di A. Dumas figlio (Le demi-monde, 1855), che rappresenta gli amori e la corruzione di un ambiente sociale parigino che non è né borghesia né vero ‘gran mondo’.»

La referenza del significato dunque non si dirige verso l’ambiente malavitoso, ma verso l’ambiente mondano. Nel Mondo di Mezzo i mafiosi –citati sempre come “referenti”, tipo il boss De Carlo- sono dei coprotagonisti, dei personaggi atti a comporre un mosaico estremamente più vasto e dai connotati particolari, in cui non c’è un solo movimento ascensionale ma soprattutto istruzioni, atteggiamenti, azioni ordinate dall’alto. In questo contesto la parola “mafia” assume contorni limitati.

E allora perché usare la parola “mafia” per etichettare qualcosa che va oltre la mafia, qualcosa con cui la mafia tratta – e non si “infiltra”, incarnando i rapporti con atteggiamento scoperto e paritario?

Probabilmente c’è da supporre che mafia sia una parola “standard”, in questo paese. Ogni giorno aprendo qualsiasi quotidiano noi leggiamo più di un articolo che parla di mafia, e la parola è ormai entrata non solo nel gergo lessicale diffuso – «quella è mafietta», «ha atteggiamenti mafiosi», «la mafia dei mercatini dei libri usati», sono solo degli esempi- ma soprattutto “mafia” è una parola che riporta a un immaginario senza dilungarsi in spiegazioni eccessive. A tal proposito parlando di nomenclatura standard del vocabolo “inimmaginabile” riferito anch’esso all’inchiesta romana, così scrive Ugo Rosa qualche giorno fa su Gli Stati Generali: «Da decenni, in questo paese accadono cose che il giorno dopo, puntualmente, vengono definite, da politici, giornalisti e perfino dal capo dello stato: “inimmaginabili”».

Negli anni Settanta (ma anche dopo) stessa sorte capitava al vocabolo “fascista” (ma anche “anarchico” , “bomba”o “terrorista”, ad esempio) poi ampiamente utilizzato per inquadrare un’immensità di variegati atteggiamenti, cosa che al giorno d’oggi non si è di certo affievolita: Berlusconi diventa «fascista», ma «fascista» è anche Grillo, il suo avversario politico. Fascisti sono i piddini intransigenti, fascisti sono i piddini che svoltano a destra, fascista è Carminati, fascista è Alemanno, fascista è Salvini. Tutte peculiarità differenti, fatte entrare nel grande insieme. D’altronde questo è un paese che si è accontentato di affibbiare il vocabolo fascista a varie stragi impunite come se così si possa trovare pace, laddove “fascista” diventa quell’espressione per indicare tutto ciò che non si sa ma che per comodità si archivia così – poi al limite si specifica tra quattro mura, o davanti a un caffè.

La parola standard dunque ha un compito preciso: normalizzare. Livellare allo stesso piano situazioni e ambiti differenti, appianare le divergenze e le peculiarità, trascinare l’opinione pubblica verso una precisa valutazione delle cose. Antonio Mancini, ex membro della Magliana, in una recentissima intervista al Fatto Quotidiano così dichiarava:

«Noi della Magliana eravamo dei banditi da strada, amavamo le rapine, senza guardarci le spalle, senza compromessi. Volevo una Ferrari? Un colpo e la compravo. Me la sequestravano? Sti cazzi, un altro colpo e la ricompravo. Ho speso tutto. De Pedis invece si è comprato locali, ristoranti, discoteche, era padrone di Campo dei Fiori. E secondo lei, oggi, quei soldi chi se li magna?»

Inutile pensare che, se le indagini sull’apparato criminale romano partite alla fine degli anni Settanta e protrattesi –suppongo- per qualche decennio non abbiano mai evidenziato la necessità di confiscare nulla, neanche nel momento in cui si riaccende il tutto – a fine 2014 e con normative antimafiose già in atto-, qualche sospetto sulla cattiva nomenclatura dell’inchiesta si può avere.

Jean-Jacques Rousseau nel primo capitolo del quarto libro del suo Contratto Sociale, dal titolo “la volontà generale è indistruttibile” scriveva :

«Fino a quando parecchi uomini riuniti tra loro si considerano come un sol corpo, essi non hanno che un’unica volontà, diretta alla comune conservazione e al benessere generale. Allora tutte le energie dello stato sono vigorose e semplici, le sue massime sono chiare e luminose; non vi sono interessi imbrogliati, contradditori; il bene comune si presenta dovunque con evidenza e non richiede che del buon senso per essere visto. La pace, l’unione, l’uguaglianza sono nemiche delle sottigliezze politiche. Gli uomini retti e semplici sono difficili da ingannare a causa della loro semplicità: le lusinghe, i pretesti raffinati non contano per loro, non sono neppure abbastanza sottili da essere imbrogliati. […]Infine quando lo stato, vicino alla sua rovina, non sussiste altro che come forma illusoria e vana, quando il vincolo sociale rotto in tutti i cuori, quando il più vile interesse si adorna sfrontatamente del sacro nome di bene pubblico, allora la volontà generale diventa muta; tutti, guidati da motivi segreti, non ragionano più quali cittadini, come se lo stato non fosse mai esistito, e si fanno passare falsamente, sotto il nome di leggi, decreti iniqui, i quali non hanno per scopo che l’interesse particolare. Ne dobbiamo dedurre che la volontà generale sia annientata e corrotta? No: essa è sempre costante, inalterabile e pura, ma è subordinata ad altre che prevalgono su di essa».

Insomma il demi-monde, l’anfratto in cui l’animale umano ambisce ad essere Superuomo, per dirla alla Nietzchiana maniera, corrompe non solo istituzioni, ma logora le coscienze, e subordina. Non intrallazza, non si arricchisce solamente. Subordina. Questo vuol dire che la posta in palio qui è il potere, prima che il denaro. Alla mafia –storicamente e come già detto- il potere istituzionale non è mai interessato come fine, è stato sempre un mezzo per raggiungere fini economici. Quindi qualcosa non torna.

Rousseau forse ci aiuta a comprendere quella frase di Ferrara su chi sale in autobus senza biglietto, e da lì –non per merito di Rousseau- inquadriamo facilmente il garantismo di una certa ala della destra vicina a ambienti forzisti che gongola con popcorn e bibita davanti allo sfacelo di quello che viene uniformemente considerato il demi-monde progressista, o mondo delle terrazze romane, in cui sono scivolati anche gli scissionisti di Fratelli d’Italia.

Si legge (in forma anonima) sul sito Internauta, nel marzo 2013:

«Mi capitò di occuparmi delle terrazze romane, cioè della mondanità sinistrista nell’Urbe (il clima si addice ai parties sotto le stelle) un anno che il letterato Enzo Siciliano ascese a presidente della Rai. Elettrizzata, la contessa Donatella Pecci Blunt annunciò “una gran cena”. E la marchesa Sandra Verusio di Ceglie, villa sull’Appia e appartamento da cinema in centro: “Era quel che volevamo: una persona che pensasse a sinistra, ma che non ‘giocasse’ a sinistra”. La gioia delle altre lionesses filoproletarie fu parimenti incontenibile. Paolo Conti cronista del ‘Corriere’ scrisse di ‘pieno fermento’ del terrazzismo: “Si respira aria di Liberazione”. Spiegò che il terrazzismo ” è quella categoria dello spirito, bene illustrata dal film ad hoc di Scola. Prevede: grande loggia con vista (imbattibile il primo modello Marta Marzotto degli anni Guttuso, con piazza di Spagna ai piedi), cibi poveri (pasta e ceci. vino bianco), invitati di sinistra, gran classe e lotta di classe, baciamano e progressismo, buone letture e voto popolare (…). Adesso è tutto un brindisi. c’è la nuova Rai: Giancarla Rosi, moglie di Franco, grande animatrice di serate romane, si irrita quando sente parlare di salottismo continuo: “E’ un’espressione liquidatoria che si tira fuori quando nominano uno giusto al posto giusto. E poi che strazio questa faccenda delle terrazze, dei salotti: ma la gente dove dovrebbe riunirsi la sera per parlare? sulle piazze? nelle portinerie? nei cimiteri?” ».

Certo che no, però se lo scandalo investe le terrazze romane, se i mafiosi presenti nella grande ammucchiata vengono identificati come referenti, se la storia criminale di Roma già ampiamente sdoganata da cinema e tivvù ha sempre tessuto legami sia con ambienti mafiosi che con ambienti istituzionali mantenendo una fortissima autoreferenzialità — “A Roma so’ tutte primedonne”,  “Non ci sarà mai una banda grande”, sono le frasi più famose della celebre serie-, se i principali responsabili sono assassini graziati da Scalfaro dopo omicidi da 34 coltellate –vedi Buzzi– spacciatisi per funzionari pubblici e non boss siciliani, se a farla da padroni sono esponenti tra il fascismo militante armato di trentacinque anni fa e gli apparati deviati dello Stato, se recentemente “spunta” tra gli interlocutori anche la ‘ndrangheta –come scrivono oggi i giornali- è faticoso inquadrare la macroarea nella stretta casella “mafia”.

Scrivono su Il Foglio online, con firma “redazione”, ieri:

«Le cronache di questi giorni, a destra e a sinistra, sono esemplari. E sia i giornali di sinistra, Repubblica, sia quelli di destra, Libero e il Giornale, cercano in tutti i modi i “link” che possano portare acqua al loro mulino. Stampa di sinistra: a Roma la fogna è bipartisan ma è la destra che ha mangiato più degli altri (avete presente le valigette di Alemanno?). Stampa di destra: a Roma la fogna è bipartisan ma tutti sono “coinvolti” e guardate cosa dicono di Fassina, di D’Alema, e così via. Ovviamente senza una prova, manco un indagato. Solo con le millanterie. La spia per capire quando i giornali entrano in modalità fango si accende quando in un titolo si legge la parola “spunta”. Spunta il nome di Tizio. Spunta il nome di Caio. Così, quando leggete la parola “spunta” regolatevi da voi».

L’intento è chiaro, smarcarsi dal demi-monde, restare garantisti, e al contempo inchiodare al muro -anche e soprattutto in trasferta a Ballarò- i dirimpettai politici, mentre il lettore /elettore resta impegnato a concentrarsi su Ferrara e non sul discorso, nello stesso processo di volontà subordinata accennato da Rousseau.

Ferrara l’altra sera ha lanciato un messaggio traducibile in questo senso: «questa non è mafia e non capisco perché la chiamiate così», definendo provocatoriamente “supercazzola” non l’inchiesta in sé, ma tutto il corollario di strategie comunicative di massa che essa si trascina. Un messaggio molto chiaro che però non tutti hanno recepito, annebbiati da i fumi di scena che il direttore del Foglio è solito portarsi con sé. Come è possibile che un maestro della comunicazione lanci un messaggio non recepito? Forse perché a volte pare che i giornali servano più per coprire che per scoprire, forse perché a volte i destinatari “standard” crediamo sempre di essere noi, dimenticandoci per un attimo di essere il Mondo di Sotto.

TAG: carminati, DIA, Giuliano Ferrara, Il Foglio, Jean-Jacques Rousseau, mafia, mondo di mezzo, Roma
CAT: Criminalità, Giustizia, Roma

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