Scoop, rivelazioni e tesi smentite. Arriva il (dis)servizio pubblico

26 Maggio 2021

Report ha colpito ancora. Questa volte le mirabolanti rivelazioni annunciate nei giorni scorsi sono di dominio pubblico, note da diversi anni ma sono riportate parzialmente e utilizzate al fine di inserire nuovi nodi nella tela della verità

Lo scorso 24 maggio è andato in onda l’appuntamento settimanale con gli scoop di “Report”, il settimanale di inchiesta giornalistica di Rai3, ossia del servizio pubblico. La puntata è stata annunciata con post sui social che dichiaravano “Questa sera l’inchiesta principale è sulla mafia, sulle stragi, sui mandanti occulti. Racconteremo 30 anni di una storia ancora oggi rimasta verità attraverso i verbali scomparsi, smarriti o nascosti nei cassetti”. Ancora una volta impongono grandi aspettative al pubblico ma, alla fine, in questa puntata più che in altre, hanno creato un collage di cose già viste, già sentite e, come spesso succede, piene di omissioni gestite ad arte e versioni dei fatti opinabili e soprattutto non rispondenti ad alcuna verità.

Si è parlato di Giovanni Aiello, di vicolo Pipitone e della fantomatica donna bionda che accompagnava l’Aiello. Viene definita più pericolosa dello stesso Aiello riprendendo le stesse tesi, perché di tesi si tratta che Lirio Abbate ha affidato al suo ultimo lavoro editoriale dal titolo “Faccia da mostro” e buttando, ancora una volta, in pasto dell’opinione pubblica un nome, quello di Virginia Gargano, indicandola come organica alla Gladio. A questo proposito, qualche giorno fa, l’avvocato Gianpaolo Catanzariti legale della Gargano aveva annunciato di voler «procedere con le più opportune ed approfondite iniziative presso le diverse sedi giudiziarie eventualmente competenti a tutela dell’onore e della reputazione, sua e dei suoi figli, gravemente lesi dalle ricostruzioni e descrizioni contenute nel libro “Faccia da Mostro” scritto dal giornalista Lirio Abbate, anticipate su L’Espresso e La Repubblica e amplificate dalla trasmissione “Atlantide” su La7 del 5 maggio scorso nonché su altre testate» e penso che, alla luce di quanto affermato da Report, includerà anche la trasmissione di Rai 3. Il punto non è tanto Giovanni Aiello, morto nel 2017, mai incriminato, ma oramai certificato, senza passare per alcun processo e senza alcuna risultanza certa, come l’uomo dei servizi segreti deviati che sarebbe stato il vero artefice delle stragi di mafia e addirittura di quasi tutti gli omicidi degli anni ’80 e ‘90. In realtà si tratta di un uomo contro il quale non è stata trovata alcuna prova. La sua presunta responsabilità è basata esclusivamente sulle dichiarazioni di taluni pentiti che non hanno mai ricoperto alcun ruolo apicale nell’organizzazione mafiosa. Nei confronti di Giovanni Aiello sono state aperte e chiuse le inchieste che hanno portato ad un nulla di fatto per poterlo incriminare. L’ultima richiesta di archiviazione in ordine di tempo è del 2018, a firma dell’allora sostituto procuratore Luciani della procura di Caltanissetta che ha demolito le dichiarazioni discordanti e prive di ogni logica di quei pentiti che hanno addirittura parlato della presenza di Aiello, alias “Faccia da mostro”, durante la fase esecutiva della strage di Capaci. Suffragato dalla pubblicazione del libro di Abbate, Report fa nome e cognome di una donna, Virginia Gargano appunto, e la dipinge come una guerrigliera, ex appartenente a Gladio e vicina all’Aiello, cose non dimostrate, almeno per ora.

Il profilo della Gargano, dichiarandola appartenente alla Gladio mentre è dimostrato che non è vero, sembra non combaciare con le cosiddette testimonianze ma ancora una volta si è preferito dare in pasto all’opinione pubblica non un “mostro” ma due. Report dà per scontato che la Gargano, guerriera con fisico statuario e viso allungato sia ex appartenente a Gladio. Così è descritta da taluni pentiti smentiti nel tempo tranne poi scoprire che la Gargano è di bassa statura, non ha un viso allungato e non fa parte della Gladio, ma è stata semplicemente la compagna di un ex “gladiatore” motivo per il quale era inserita nell’elenco che Abbate pubblica nel suo libro e che è servito da suggeritore alla redazione di Report.

Questo è servizio pubblico?

Sempre a proposito dell’Aiello, invece seppur sia morto nel 2017 non è la sua morte la motivazione dell’archiviazione. Sono le stesse indagini a sconfessare qualsiasi sua compartecipazione alle stragi mafiose del 1992 e ai cosiddetti delitti eccellenti. Le uniche testimonianze, alcune delle quali di doppio e di triplo de relato, appartengono da pentiti di bassa lega, che non hanno mai avuto ruoli apicali nei vertici mafiosi e tutti sconfessati dopo un vaglio scrupoloso eseguito dalla procura di Caltanissetta. Si tratta di indagini del magistrato Stefano Luciani, già sostituto della procura nissena, uno dei rari magistrati che i depistaggi li sa riconoscere perché fu lui, assieme al dottor Gabriele Paci, a svelare il depistaggio sulla strage di Via D’Amelio.

Sempre a proposito delle frequentazioni femminili di Aiello è necessario, per completezza d’informazioni, citare anche Pietro Riggio, il funambolico collaboratore che parla de relato, cheha raccontato di aver visto Aiello arrivare a bordo di una Bmw guidata da una donna che è stata identificata come Marianna Castro, di origine libiche ed ex compagna di Giovanni Peluso, altro personaggio sulla cui affidabilità è meglio stendere un velo pietoso. Come di sua abitudine, il Riggio è ricco di particolari e racconta che, questa donna, sia scesa dall’auto e che indossava un paio pantaloni mimetici, forse per aumentare la percezione del suo essere una guerrigliera. Ebbene, La Castro è una fervente seguace di Sai Baba, il defunto guru indiano, e durante il suo interrogatorio racconta una storia ben diversa a partire dall’auto che guidava che non era una Bmw ma una Lancia Delta e che in realtà non sarebbe mai scesa da quella macchina; indossava, inoltre, abiti normali. Per avvalorare le sue dichiarazioni il Riggio ricorda, grazie alla sua mirandoliana memoria e nonostante siano passati moltissimi anni da quell’incontro, anche il numero di targa di quella Bmw. Peccato, però, che gli accertamenti eseguiti dalla Squadra Mobile abbiano scoperto che la targa esiste ma è quella di un trattore.

Ma, come disse Amatore Sciesa mentre si dirigeva verso il patibolo, “Tiremm innanz!”.

A proposito dei verbali nascosti, invece, Report tira fuori dal cilindro ancora una volta Salvatore Baiardo, il gelataio piemontese che gestiva la latitanza dei Graviano negli anni delle stragi. Baiardo, per la cronaca, è quello che ha sostenuto ai microfoni di Report, un po’ di tempo fa, che dell’agenda rossa scomparsa del dottor Borsellino ne esistano addirittura più copie senza specificare, però, se si tratta di fotocopie o di ristampa della stessa.

E, sempre a proposito di verbali o dichiarazioni nascoste, ancora una volta spuntano dal sottobosco delle informazioni, le mancanze relative alle indagini che non sono state svolte, nei procedimenti “Borsellino” e “Borsellino bis”, riguardanti le affermazioni di Francesco Paolo Maggi, uno dei poliziotti che arrivarono tra i primi in via d’Amelio dopo la strage, che dichiara di aver visto un paio di personaggi in giacca e cravatta che armeggiano intorno all’auto blindata che aveva guidato dottor Borsellino e che riconobbe come romani e appartenenti ai servizi segreti. In questo caso, però, sarebbe bastato chiederne conto ai magistrati che se ne sono occupati direttamente ma, seppur intervistati nel corso della puntata, nessuna domanda è stata loro rivolta.

Ancora una volta, questo è servizio pubblico?

La saga continua, direbbe il lancio finale dell’ennesimo film che riguarda la medesima storia e, oramai l’abbiamo capito, Report non si nega nulla e tantomeno Report lo nega al suo pubblico affamato di scoop e complotti.

Altro colpo di scena è quello relativo alla morte di Antonino Gioè, morto in carcere. Si è suicidato o l’hanno suicidato? Francesco Di Carlo, collaboratore, non ha dubbi: i servizi l’hanno “suicidato”. A questo proposito, già nel 2018 l’avvocato Salvatore Petronio, avvocato di Salvatore Biondino al processo “Capaci” e difensore di Lorenzo Tinnirello al “Capaci bis”, rilasciò una lunga intervista a Edoardo Montolli, autore del libro “I diari di Falcone”. Tra i vari argomenti dell’intervista c’è una domanda diretta: “La morte di Gioè?”. L’avvocato così risponde: “Ancora oggi mi chiedo se si è suicidato e è stato suicidato. Certamente era un personaggio chiave dell’attentato, possibile cerniera tra mondi diversi rispetto a Casa nostra, in cui, tutto sommato, non ha mai avuto un gran peso. Basti pensare a cosa ha detto su di lui il pentito Francesco Di Carlo, che ha parlato di contatti da lui favoriti tra Gioè e appartenenti ai servizi segreti, aventi a oggetto proprio la possibilità di un attentato a Falcone. Ma io sono un semplice avvocato, su questo avrebbero dovuto indagare la Procura di Caltanissetta e quant’altri”.

Lo stesso avvocato Petronio, nel corso della medesima intervista parla anche di altri “misteri” che Report ha promesso di disvelare al suo pubblico, anche se in parte. Si tratta dei telefoni clonati in possesso di Gioè e La Barbera e, cosa non citata da Report, delle intercettazioni relative al covo di via Ughetti. L’avvocato Petronio chiese depositare quelle intercettazioni ma la sua richiesta non fu soddisfatta. “No, mai, e la mia richiesta fu sempre rigettata. Questo è uno degli ennesimi misteri dei processi su Capaci. Perché, oltre che sulla strage in sé, vi sono misteri anche sui processi che la riguardano. Sarebbe stato interessante poter ascoltare tutte le conversazioni intercorse tra i due (Gioè e La Barbera, nda), per valutare se vi fossero riferimenti utili per ricostruire la verità dei fatti: stiamo parlando di un soggetto particolarmente ambiguo, come Gioè che, come risulta dagli atti, aveva avuto, sia prima sia dopo l’attentato, parecchi contatti con soggetti appartenenti ai servizi segreti o contigui, come un certo Paolo Bellini, sul cui ruolo non si è mai chiarito abbastanza. Per non parlare – prosegue Petronio – dell’utilizzo di telefoni clonati in possesso di Gioè e La Barbera, che se ne servirono proprio nei giorni della strage e addirittura proprio quel 23 maggio, facendo telefonate a utenze internazionali, anche americane, mai individuate (…) In verità, pare che dopo la deposizione, in vari processi “paralleli” per la strage, contro noti e ignoti, che si sono susseguiti e forse si susseguono ancor oggi (era il 2018, nda), qualcuno si sia presa la briga di accertare a chi fosse intestata quell’utenza, collocabile nel Minnesota, tuttavia senza nessun approfondimento investigativo, almeno evidenziato in sede processuale. Nel secondo processo per la strage, anche questa tematica non è stata ritenuta rilevante”. Che non tutto ciò fosse segreto, tra l’altro, lo si evince anche dal sorriso rivelatorio del dottor Gioacchino Genchi, intervistato nella stessa puntata.

Spunta poi un altro falso segreto, quello del parente americano di Totò Riina, ma questo va a confermare solo che Cosa nostra americana potesse avere interessi convergenti con Cosa nostra siciliana e che, forse, sia stata interessata a fornire supporto per la strage di Capaci.

E veniamo adesso alle dichiarazioni inconsapevoli di Totò Riina, intercettato in carcere a sua insaputa. Ancora una volta ne vengono citate alcune e altre, ritenute non idonee alle tesi del programma. L’argomento è la mancata perquisizione del covo di Totò Riina dopo il suo arresto e quindi al mancato sequestro dei documenti compromettenti che avrebbero dovuto esserci in quella cassaforte. Gli investigatori chiamati in causa conoscevano bene il pensiero e le logiche mafiose e immaginavano, a ragione, che nessun boss avrebbe mai messo in pericolo la propria famiglia conservando nella loro stessa abitazione documenti riservati.

A questo proposito, tratto dalle trascrizioni delle intercettazioni Riina dice a Lorusso, il suo compagno di ora d’aria mentre era al 41bis:

RIINA: “Io, onestamente, devo dire la verità, non scrivevo niente. Non tenevo niente dentro la casa. Però loro dicono… ma come lo dicono?” e ancora: “Lo sapete che cosa ci tenevo nella… – riferendosi alla cassaforte – là dentro… spagnolo… questi… un revolver ci tenevo”.

Non solo. Ranucci, ad un certo punto, cita Riina evidenziando il fatto che avrebbe dato del furbo al generale Mori sottintendendo che che lo ritenesse furbo perché aveva deciso di non perquisire il covo ma, in effetti fa riferimento al fatto che Mori avesse comporeso che non avrebbero trovato nulla.

LORUSSO: “Poi… si capisce da quello che hanno detto ieri sera. Mori ha detto: noi la perquisizione neanche l’avevamo fatta, perché ritenevamo che Riina… che era ricercato e che sapeva eh… non potesse tenere a casa documenti o cose compromettenti…;

RIINA: Minchia… furbo, furbo…

È evidente che il senso è completamente diverso da quanto Ranucci abbia voluto far intendere al suo pubblico.

A questo proposito, proprio ieri 25 maggio, audito dalla Commissione Antimafia siciliana, il dottor Antonio Ingroia, tra l’altro, ha dichiarato: “La mancata perquisizione del covo di Riina è il segreto  di Pulcinella” e continua “è ovvio che non è stata una scelta intenzionale, non  è pensabile, se non si è fatta la perquisizione, è perché non si  poteva fare. Ha ragione il capitano Ultimo quando dice che non era facile controllarla perché il residence era aperto da più parti“.

Ancora una volta, questo è servizio pubblico?

Dulcis in fundo, Report ci svela, a suo dire, il mistero che riguarda Svetonio, nome in codice dato ai servizi a Antonio Vaccarino, ex sindaco di Castelvetrano, noto per aver intrattenuto una corrispondenza, coperta dai servizi segreti, con il boss latitante di Cosa nostra Matteo Messina Denaro. L’ex politico Dc è morto lo scorso 19 maggio, all’età di 76 anni, mentre si trovava all’ospedale di Catanzaro, dove era stato ricoverato in terapia intensiva dopo aver contratto il Covid. Per la cronaca, e per una corretta informazione, la richiesta di archiviazione rispetto alla posizione di Vaccarino risale al 2007, precisamente il 19 luglio 2007 perché “Non esistono dunque elementi sufficienti per sostenere l’accusa in dibattimento”. Si tratta di una corrispondenza, peraltro pubblicata nel 2008 in un libro dal titolo “Lettere a Svetonio. Il capo di Cosa Nostra si racconta” a cura di Salvatore Magno tra Matteo Messina Denaro, che si firma Alessio, e Antonio Vaccarino, che si firma Svetonio. Nonostante tutto questo non è sufficiente per Report. La possente ricostruzione giornalistica andata in onda mette in evidenza che Alessio, in effetti, non fosse Matteo Messina Denaro bensì un uomo dei Servizi che scriveva i “pizzini” per conto del superlatitante e cheli mandava a Svetonio, quindi a un uomo dei Servizi, che li consegnava poi a Mori che in quel momento era a capo dei Servizi. Quindi i vertici del Sisde scrivono le risposte da far pervenire, tramite lo stesso Svetonio, ad Alessio, ossia a un uomo dei servizi. Evidentemente c’è qualcosa che non funziona anche perché, una volta chiuso il cerchio, tutti gli elementi attivi della corrispondenza erano dei servizi. E i mafiosi dove sono finiti? Praticamente un corto circuito.

E poi non poteva mancare la ciliegina sulla torta, quella torta che da un po’ di tempo piace molto ai giornalisti della redazione di Report ma anche a quelli di “Atlantide”, il programma condotto da Andrea Purgatori. Si tratta delle informazioni che ha dato al ROS Luigi Ilardo, il capomafia della Provincia di Caltanissetta, cugino di Giuseppe “Piddu” Madonia che, dopo 11 anni di carcere per mafia, nel 1993 iniziò a collaborare con la Direzione Investigativa Antimafia (DIA) in qualità di confidente del colonnello dei carabinieri Michele Riccio, con il nome in codice Oriente. Dal racconto di Report, così come già successo per quello di Atlantide, appare evidente che nessuno delle due redazioni abbia letto né l’informativa del ROS n. 231/10 del 30 luglio 1996, tantomeno la trascrizione integrale delle dichiarazioni rese dall’Ilardo alla presenza del ten. Col. Riccio dalla quale si evince la quantità di informazioni de relato, quindi non riscontrate e riscontrabili abbia fornito l’Ilardo e la sua non genuinità spesso sostituita da interessi della famiglia mafiosa di appartenenza. Non solo. In una nota della DIA del 13 settembre 1995 sulla “Operazione Scacco al re – Fonte fiduciaria denominata Oriente” riguardante le informazioni date dall’Ilardo, il cui nome in codice era appunto “Oriente”, si legge: “La portata della collaborazione prestata dalla fonte, peraltro, ha riguardato, com’è noto, ambiti provinciali, siciliani, anche diversi da quello di Palermo. Ed in questi ambiti, tale collaborazione si è intrinsecata in una serie di informazioni valse ad addivenire alla cattura, da parte di questa direzione nonché delle Forze di Polizia, cui opportune e puntuali attivazioni erano state indirizzate, di alcuni latitanti della provincia di Messina, di Catania ed in quella di Caltanissetta. L’opportunità di addivenire alla cattura di individui colpiti da provvedimenti restrittivi, inscindibilmente correlata all’obbligo di legge di assicurarli, comunque, alla giustizia, non distoglieva, peraltro, dalla considerazione, cui induceva anche la personalità criminale di alcuni arrestati, che la fonte potesse avere, in ogni caso, un interesse strumentale, in senso strategico-criminale, ad eliminare individui scomodi per se stessa e comunque non controindicati rispetto ad un preciso disegno perseguito, di nessuna aderenza ai fini della giustizia: a tale riflessione induceva, inoltre, la valutazione, di natura meramente tecnico-investigativa, delle indicazioni assolutamente puntuali offerte dalla fonte in dette circostanze a fronte della estrema indeterminatezza della maggior parte di quelle attinenti, invece, all’ipotecata cattura del Provenzano, obiettivo precipuo, se non esclusivo di questa Direzione, allorché  erano state avviate le attività di cui è trattazione. Peraltro, sui pochissimi spunti d’indagini, offerti da “Oriente” e caratterizzati da un minimo di concretezza, venivano avviate approfondite attività investigative, autorizzate da codesta A.G. (intercettazioni telefoniche, servizi di osservazione e pedinamento) e di riscontro che, comunque, non sortivano alcun esito apprezzabile. Progressivamente, però, il flusso di informazioni provenienti dalla fonte tramite il Riccio andava scemando sino ad un’effettiva e sostanziale posizione di silenzio e di stallo che perdura, a tutt’oggi, da circa quattro mesi”. La nota conclude con: “Quanto sopra si riferisce, per gli effetti di legge e per le eventuali ulteriori iniziative di codesta A.G., assicurando la prosecuzione delle attività già delegate, in fase di svolgimento da parte del Centro operativo di Palermo, sui cui esiti si fa riserva di riferire, nonché l’adozione di ogni iniziativa, compatibile con la situazione determinatasi, di sostanziale ulteriore indisponibilità della fonte a prestarsi al prosieguo di una fiduciaria collaborazione”.

Ancora una volta, questo è servizio pubblico?

“L’uomo non si nutre di verità, l’uomo si nutre risposte” dice Ranucci durante la puntata citando Daniel Pennac, ma l’importante è che le risposte non siano menzogne o informazioni parziali o peggio ancora manipolate.

TAG: Andrea Purgatori, atlantide, inchiesta, report, scoop, Sigfrido Ranucci
CAT: Criminalità, Media

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