Arte
La crocifissione bianca, Chagall e la Palestina
In tanti, per spiegare Gaza sono andati in cerca di parole che risultano estranee al patimento, alla pena, al male, al tormento, allo spasimo, all’angoscia, all’afflizione, alla tribolazione. Ma, fuori da questi lemmi, non troviamo Gaza.
Max Liebermann, Camille Pissarro, Amedeo Modigliani, Marc Chagall, Jozef Israëls, Chaim Soutine sono stati artisti dotati di una emotività e impressionabilità molto sintomatiche, che hanno dato luogo a un sentimento elevato di profondissima pietas, dove l’esaltazione dell’animo umile e la mortificazione per la calpestata dignità dell’uomo per opera dei suoi simili restano ben evidenti nelle diverse sfumature ideali di questi pittori. Tra di loro conosco tanto di Modigliani, mentre degli altri ho una consapevolezza appena discreta. Sono accomunati da un sicuro talento e da pregi e difetti in serie. Ma li univa un elemento arcaico e di tradizione molto forte e, tuttavia, non proprio distintivo della loro arte, concepita come universale: erano ebrei. Fatta eccezione per Marc Chagall, che visse quasi cent’anni (1887 1985) e il cui nome ebraico era Moishe Segal, nessuno dei suddetti grandi maestri ottocenteschi ha mai saputo della Shoah e conosciuto lo Stato d’Israele, proclamato, come tutti sapranno, nel 1948. Chagall nel corso della sua vita dipinse diverse opere dai temi biblici e relativi alla cultura ebraica, ma non si stabilì mai in Israele, prendendo a pretesto il fatto che, dopo duemila anni di esilio, lui, come molti ebrei ashkenaziti, non era più abituato al clima del paese. La sua patria intellettuale era la Francia che, da buon ebreo russo, considerava come il faro della cultura europea, anche se non avvertiva la necessità di legarsi a un luogo specifico e ben determinato.
Ora, in un clima decadente e di corruzione, dove le tragedie del mondo hanno una narrazione contraffatta, dove finanche l’arte e la cultura vengono meno alla loro ragione d’essere, la domanda è: quale disprezzo avrebbero provato questi artisti, considerandone lo spessore antropico, per l’attuale politica dello Stato d’Israele in Medio Oriente? La pietà e il disprezzo sono in qualche modo sentimenti speculari: se si prova compassione per i bambini palestinesi, lasciati morire di fame, non si può e non si deve negare il disprezzo ai responsabili e ai complici di una simile oscenità, talmente insopportabile da procurare sintomi di malessere, quali nausea e uno stato emotivo di nervosismo. E vien da chiedersi, guardando appunto a Chagall, che sa della sofferenza e dell’erranza, se quei bambini sopravvissuti alla fame e alle bombe dei soldati dell’Idf avrebbero mai volato nel cielo di Gaza per mettersi in salvo. Io dico di di sì. Marc Chagall avrebbe messo loro le ali, poiché quei corpi piccoli e smunti avrebbero attraversato la sua coscienza per uscirne liberi e invulnerabili. Probabilmente, non sarebbe riuscito comunque a salvarli, ma ci avrebbe provato, provocando con i suoi schizzi e i suoi colori, mettendosi di traverso, offrendo il proprio petto come bersaglio, a protezione degli indifesi. Lo avrebbero seguito a ruota Modigliani e gli altri, tutti ebrei, tutti veri artisti e uomini di cultura. Inutile girarci intorno e far finta di niente: dopo Gaza, resta complicato parlare di conoscenza e creatività, sapendo che da noi, in questo momento, se ne occupano persone senza le necessarie prerogative per farsene interpreti credibili. Quando non vi è più alcun contrasto tra l’orribile realtà causata dalla politica e l’arte in genere, la stessa coscienza civile resta imprigionata nell’oblio.
In tanti, per spiegare Gaza sono andati in cerca di parole che risultano estranee al patimento, alla pena, al male, al tormento, allo spasimo, all’angoscia, all’afflizione, alla tribolazione. Ma, fuori da questi lemmi, non troviamo Gaza, ma la rappresentazione verbosa e stilistica di una menzogna intollerabile, che non è un luogo di strazio, una città devastata e rasa al suolo, una striscia di terra deformata e snaturata. E neanche fuori dalla denuncia, dal risentimento e la rabbia vi può essere, ormai, Gaza. Ecco perché quando l’arte e la cultura tacciono di fronte alle tragedie come quella palestinese, il mondo sembra caderci addosso, ogni sorta di speranza si affievolisce e anche l’ultima certezza di salvezza svanisce. Per fortuna viene in soccorso l’arte dei grandi, dei coraggiosi, dei sofferenti. E allora, ancora Chagall, con la sua “Crocifissione bianca”, ad accendere una fiammella di fiducia, che è memoria e insegnamento. La scritta in ebraico sulla tela del geniale artista, eseguita nel 1938, recita: “קדוש קדוש קדוש” (Kadosh, Kadosh, Kadosh), che significa “Santo, Santo, Santo”. Questa frase è tratta dalla liturgia ebraica e non solo si riferisce alla santità di Dio, ma è anche un invito alla riflessione sulla condizione umana e la necessità di pace e giustizia. Chagall usa queste parole per collegare la crocifissione di Gesù alla sofferenza e al martirio del popolo ebraico, creando un’opera che denuncia la violenza e l’oppressione del periodo nazista, durante il quale fu costretto a riparare negli Stati Uniti. Ecco, oggi manca l’equivalente della “Crocifissione bianca ispirata al martirio del popolo della Palestina. Manca la tela, mancano le parole, gli atteggiamenti, lo slancio che diano la sensazione di non aver perso l’umanità per soccorrere gli ultimi, i più indifesi, quelli ritenuti inutili e di ostacolo alle necessità di espansione di uno Stato terrorista e criminale, che può contare sulla complicità dell’Occidente. Manca Chagall, certo. Manca il genio. Ma si ha la sensazione che a mancare di più sia un minimo di coraggio per riappropriarsi della capacità di tornare a narrare secondo coscienza. Naturalmente, parlo per quelli che ce l’hanno ancora.
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