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Eventi

Una passeggiata stendhaliana per le strade di Roma

di Dino Villatico

Tre incontri: di poesia, di musica, di teatro.

2 Luglio 2025
Niente più che una nota di diario, queste poche righe di una serata romana. Una giornata particolare, molto particolare, nella calura estiva della città. Nella sala Luca Serianni della Società Dante Alighieri a Palazzo Firenze, il presidente Michele Canonica ha invitato Mario Santagostini a presentare la nuova collana di poesia dell’editore Guanda, o si dovrebbe dire, meglio, la rinascita di una collana di poesia dell’editore Guanda. Molti poeti, antichi e moderni, hanno frequentato e occupato quelle pagine. Sono nella memoria di tutti. Ma io amo ricordare, tra tanti, i due preziosi volumi dei trovatori provenzali. Chi sa quanti questi due libri hanno aiutato a uscire dalla distratta citazione liceale di una poesia che fu l’iniziatrice della poesia europea moderna. Iniziatori, in ogni senso, i poeti provenzali, anche quello, appunto, iniziatico, di un segreto della poesia, di un trobar, cioè di un poetare nel senso di ricercare la forma perfetta (il tropo liturgico era anch’esso del resto un modello di ricerca musicale e poetica), con un senso assai difficile, rigoroso, di chi si misura con la poesia, aperto o clus che sia il suo dedicarvisi. Senso di esclusività, di ricerca, di novità, forse oggi perduto, come morbidamente insinuava Roberto Deidier, poeta e maestro di poesia, commentando il panorama della poesia oggi in Italia. Guidava la conversazione Maria Ida Gaeta, anche lei della Dante Alighieri. Di poeti che sarebbero dovuti essere presenti perché nomi dei primi libri della collana – oltre, naturalmente a Santagostini e Deidier, anch’essi poeti, ma venuti a presentare e commentare – era presente solo Marco Corsi, con il suo libro Nel dopo. E ne ha letto qualche stralcio. Il caldo ha dissuaso a intervenire Edith Bruck, oggi novantaquattrenne, ma c’era il suo Le dissonanze. In tempi di spasmodica ricerca di consonanze, una voce dissidente. Leggeremo. Da Palazzo Firenze, a pochi passi dalla Camera della Repubblica – e dal Pantheon – una passeggiata stendhaliana mi conduce al Borghetto Flaminio, ad ascoltare, nella Sala Casella dell’Accademia Filarmonica Romana, Valerio Vicari che, introdotto da Emanuele Franceschetti, presenta, ancora quasi fumante di stampa, il suo Richard Wahner, il cane e il pappagallo, Pisa, Edizioni ETS, 2024.

Valerio Vicari

L’amore di Wagner per gli animali è noto. Ma noto è anche quanto la sua figura sia in Italia più famosa che conosciuta, oggetto anzi il più delle volte o di fastidio o di noia per l’eccessiva lunghezza dei suoi drammi musicali., dove a detta di molti non accade niente. Poco vale ribattere che i melodrammi seri di Rossini così come anche quelli di Handel sono più lunghi. Si si sente in genere rispondere che Rossini, Handel sono un’altra cosa. Ma che non accada niente nel Tristano, dove sono addirittura scardinate le coordinate della vita in favore del trionfo della morte; o nel Lohengrin, dove, semplicemente, ci si dice che l’umanità non è pronta a essere salvata, ma resta condannata a vivere nel suo inferno di violenza e disamore; o nell’Anello del Nibelungo, dove il mito scava nei recessi dell’appetito più selvaggio della storia, la smania di potere, l’avidità della ricchezza, è quanto meno improprio.

Filippo Tenisci

Filippo Tenisci, bellissimo nel suo incedere di angelo musicale che si avvia verso il pianoforte sul quale viene a raccontarci, appunto, l’altro modo di vivere, l’altro mondo, non quello angelico, ma quello che rifiutiamo, per la nostra avidità: Tenisci ci suona, ispirato, le meditazioni lisztiane sui temi del teatro wagneriano: Coro dei pellegrini dal Tannhäuser, Ballata di Senta dall’Olandese volante, Morte di Isotta dal Tristano e Isotta. Ciò che sorprende di questo giovane e sbalorditivo pianista è la sconfinata variabilità del tocco, dal sussurro impercettibile al grido esasperato di angoscia., l’eleganza del gesto che restituisce una visione di vita. La musica, come voleva Wagner e come supponeva Liszt, ci parla di noi, non di sé stessa. La bellezza, più che l’imposizione di una maschera, e la sua sottrazione, lo spogliarsi della cosa, per mostrarsi com’è. Quanto di più aderente alla lettura che Liszt propone di queste musiche: una restituzione di vita che la vita ogni giorno ci sottrae. Non una fuga, ma un confronto. Il virtuosismo, per esempio, che coniuga il corale dei pellegrini con le figure ossessive che lo contrastano, in orchestra degli archi contrapposti ai fiati, sul pianoforte nella zona acuta della tastiera in dissidio con gli accordi della zona media e bassa, non è esibizione di bravura, ma svelamento di una realtà. O come emerge via via, dapprima dolcemente, poi a poco a poco più forte e infine spasmodicamente il delirio dell’agonia di Isotta, il suo voluttuoso affondare nel nulla della morte, ewige Lust, eterno piacere. Si va, dopo quest’estasi, nei giardini, dove Marco Carniti ci ripropone l’avventura della Tempesta di Shakespeare come l’avevano immaginata e realizzata Giorgio Strehler e Luciano Damiani. Antonella Civale incarna lo storico suggeritore del Piccolo di Milano,Alighiero, che ci racconta come la finzione teatrale prese l’aspetto di una complessa, inestricabile metafora della vita, prefigurando perfino gli orrori della colonizzazione. Civale è una narratrice convincente, formidabile, che ci guida passo passo nella ricostruzione di uno spettacolo che non abbiamo visto ma che lei/lui ci fa vedere e ci commuove come se vi assistessimo ancora, di nuovo. Tutto il mondo è teatro e noi siamo fatti della stessa materia con cui sono fatti i sogni.

teatro
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