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Filosofia

La felicità secondo Benedetto Croce

di Alfio Squillaci
28 Agosto 2015

L’abbiamo perso di vista Benedetto Croce. Ma è stato nella testa di molti della generazione che mi ha preceduto e nella mia è entrato tangenzialmente, per passaggio di testimone, perché “era nell’aria”. Scrittore olimpico e oggettivo, goethiano, contrario a qualsivoglia esistenzialismo passivo o a soggettivismi scomposti, tutto concatenazione di concetti, spirito assoluto, marmorea espressività di prosa. Una specie di Cassazione: l’ultima parola nel campo delle idee storico-filosofiche era sua. E non sempre aveva ragione. Praticamente ha tagliato l’erba sotto i piedi alle scienze sociali in Italia, e ha contribuito con il suo idealismo ad allontanare la cultura italiana dalle sue radici rinascimentali, dal pensiero logico-sperimentale di Galilei e Torricelli. Inoltre in letteratura aveva gusti ufficiali e pedagogici: anzi quando lessi la sua sentenza secca, contenuta ne “La Storia dell’età barocca in Italia”, secondo la quale “La poesia non può essere barocca e il barocco non può essere poesia”, mi convinsi che non ne capisse nulla, tanto più che uscivo da quello straordinario saggio di Gustave René Hocke sul manierismo . Però venne fuori da quella miniera che è l’età barocca con due strepitosi capolavori che iniziarono a circolare grazie a lui: “Lu cuntu di li cunti o Pentamerone” di G.B.Basile e il trattato di Torquato Accetto “Della dissimulazione onesta”.

Per capire l’impatto di Croce, che fu enorme, nella nostra cultura di inizio ‘900 rimando al formidabile “Profilo ideologico del Novecento italiano” di Norberto Bobbio: uno scrittore, questo, che maneggiava da gran signore idee chiare e distinte e a cui va la mia mente tutte le volte che non capisco, quasi sempre, le pagine (quasi tutte) di Emanuele Severino o Massimo Cacciari: se capisco Bobbio non sono io nel torto, mi dico. Ma tornando a Croce. Dietro alla sua olimpicità c’era un uomo contro cui s’era accanito il destino: aveva perso entrambi i genitori e una sorella nel terremoto di Casamicciola di Ischia nel 1883, come Gaetano Salvemini sotto le macerie del terremoto di Messina del 1908. Eppure anche don Benedetto ebbe qualche sbandata giovanilista, da soggettivista esagitato e scomposto, documentata da Bobbio in quel saggio sopra citato, quando appoggiò la follia secca di giovinastri come Papini, Soffici, Corradini che scrissero cose davvero atroci a favore della guerra (del 15-18), che a leggerle oggi, fanno accapponare la pelle per verbosità, stile invasato, vera e propria ferocia folle. Don Benedetto tornò dopo questa sbandata alla sua marmorea prosa e alla sua dimensione olimpica.

Ricordo sempre di lui due frasi – non chiedetemi dove le ha scritte, sono lontano dai miei libri e sono passati molti anni dal momento in cui le lessi, ma credo nelle sue pagine autobiografiche. La prima davvero olimpica, se non secca e senza appello, dice: “Non abbiamo alcuna ragione per ritenerci ingiustamente trattati dal destino” (lui che aveva perso i genitori in quel modo) e la seconda che recita: la felicità “est le contraire du sens de vivre” (proprio in francese). Se la felicità si descrive in negativo, il senso di vivere è dunque una serena, olimpica infelicità sottocutanea. Quando mi capita di andare a Napoli e di passare sotto palazzo Filomarino, dove viveva, alzando gli occhi verso la finestra della stanza dove studiava, mi verrebbe di dirgli. “Avevi ragione don Benedetto”.

felicità
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