Letteratura
Il più tormentato degli amori
Un estratto dall’appassionante epistolario di Abelardo ed Eloisa è sato pubblicato da Garzanti nella collana “I piccoli grandi libri”.
L’editore Garzanti ha pubblicato nell’economicissima collana I piccoli grandi libri alcuni brani dell’epistolario di Abelardo ed Eloisa, con il titolo Ho amato solo te. Si tratta del Prologo dello stesso Abelardo, e delle quattro lettere conclusive dei due amanti più famosi della letteratura medievale, che oggi riposano l’uno accanto all’altro nello storico cimitero Père-Lachaise di Parigi. Abelardo, chierico, teologo e ammirato filosofo docente all’Università di Notre Dame, era nato in Bretagna nel 1079; Eloisa, più giovane di venticinque anni, era una sua bella, sensibile e intellettualmente dotata allieva, nipote del canonico della cattedrale Maestro Fulberto, il quale l’aveva affidata al famoso logico perché ne approfondisse la preparazione culturale.
La passione subito sorta tra i due (“Mi bastò ascoltarti una volta. La tua parola mi penetrò come fiamma luminosa e compatta, incendiando il mio cuore”, scriveva lei; “Aveva tutto ciò che più seduce gli amanti”, commentava lui), nutrita da comuni interessi culturali e religiosi, ma soprattutto da un’intensa attrazione sensuale, li indusse presto a intrecciare una relazione clandestina, gravida di dolorose conseguenze per entrambi. Scoperti e costretti a un matrimonio riparatore, dopo che Eloisa aveva dato alla luce un bambino, subirono entrambi la vendetta della famiglia di lei e del mondo ecclesiastico. Abelardo, aggredito nel sonno da due sicari ed evirato, si ritirò nel monastero di Saint-Denis, Eloisa prese il velo nel convento di Argenteuil. In seguito il filosofo, osteggiato dai monaci benedettini per le sue tesi ritenute eretiche, fondò presso Troyes una comunità di studio e preghiera cui diede il nome di Paracleto, finendo poi i suoi giorni nel monastero di Cluny, mentre Eloisa ereditò dall’amante la scuola da lui fondata, divenendone stimata badessa.
Il Prologo con cui si apre il volumetto garzantiano è tratto dalla lettera Historia calamitatum mearum che Abelardo scrisse a un amico, descrivendo con toni sinceramente pentiti la sua esplicita intenzione di sedurre la giovane: “Tutto preso dall’amore per questa fanciulla, studiai il modo di avvicinarla e intrecciare con lei rapporti quotidiani e familiari, per rendermela amica, in modo da indurla più facilmente a cedermi”. Fattosi ospitare nella stessa casa dello zio di Eloisa, ebbe da lui il consenso a occuparsi dell’istruzione di lei, e addirittura di “piegarla con minacce e percosse, nel caso non fossero bastate le lusinghe e le carezze… come se egli affidasse una tenera agnella a un lupo affamato”. Così l’attrazione fisica tra i due ebbe il sopravvento su ogni interesse intellettuale: “Aprivamo i libri, ma si parlava più d’amore che di filosofia: erano più i baci che le spiegazioni. Le mie mani correvano più spesso al suo seno che ai libri. L’amore attirava i nostri occhi più spesso di quanto la lettura non li dirigesse sui libri. E talvolta, per meglio stornare qualsiasi sospetto, io arrivavo al punto di percuoterla… Nel nostro ardore, passammo per tutte le fasi dell’amore: e se in amore si può inventare qualcosa di nuovo, noi lo inventammo. E il piacere che provavamo era tanto più grande, perché noi non lo avevamo mai conosciuto, e non ci stancavamo mai. D’altra parte, a mano a mano che mi lasciavo portare dalla passione, avevo sempre meno tempo per i miei studi di filosofia e trascuravo anche la scuola”. Tralasciati gli studi e le pubblicazioni, Abelardo iniziò a dedicare alla giovane amante appassionate poesie d’amore che divennero presto di dominio pubblico tra gli allievi e i colleghi della sua università e nell’ambiente clericale. Il Prologo si sofferma a lungo sulle vicende che portarono i due amanti al matrimonio e poi alla separazione forzata, vissuta da loro in maniera diversa: più straziata da nostalgia e rimpianto da parte di lei, più pentita e obbediente ai voti religiosi nelle considerazioni di lui.
Nelle due lettere di Eloisa riportate in Ho amato solo te, la sua dipendenza sentimentale dal maestro e amante risulta evidente in ogni espressione carica di benevolenza, apprensione, risentimento, sensualità, già nell’intestazione, e poi nell’affannoso tentativo di rinnovare la comunicazione affettiva, e nei malinconici saluti finali: “Al suo signore, anzi padre, al suo sposo, anzi fratello; la sua ancella, anzi figlia, la sua sposa, anzi sorella”, “A colui che è tutto per lei dopo Cristo, colei che è tutta per lui in Cristo”, e ancora “Carissimo”, “Mio unico bene”. Il timore, tutto femminile, di perderlo: “quello che soprattutto mi preoccupa è il saperti tuttora in pericolo”, “pensa di quanto sei debitore a me: e allora con più affetto dà a questa donna che è solo tua quello che dovresti dare a tutte le tue fedeli insieme”. Il ricattante ricordo: “sai bene che io ti ho amato sempre di un amore senza fine. Tu sai, mio caro – e lo sanno tutti –, quel che ho perduto perdendo te… questa tua povera Eloisa che è in preda all’incertezza e che si sente quasi morire a causa del lungo dolore patito… quanto maggiore è la causa del mio dolore, tanto più efficaci devono essere anche i rimedi, e devi essere tu a porgermeli e non altri, perché tu solo, tu che sei la causa del mio dolore, tu solo puoi aiutarmi. Come solo tu puoi farmi soffrire, così solo tu puoi rasserenarmi e consolarmi. È un tuo dovere, perché io ti ho sempre ubbidito con fervore, ho sempre fatto quello che tu mi dicevi di fare, tant’è vero che, non potendo farti torto in alcun modo, non ho esitato, a un tuo ordine, neppure a perdere per sempre me stessa… In te ho cercato e amato solo te, Dio mi è testimone; ho desiderato te, non i tuoi beni o le tue ricchezze. Non ti ho chiesto patti nuziali né dote alcuna; non ho voluto soddisfare la mia volontà e il mio piacere, ma te e il tuo piacere, lo sai bene. E anche se il nome di sposa può parere più santo e più decoroso, per me fu sempre più dolce quello di amica, perfino quello di amante, se non ti offendi, o di sgualdrina. Appunto perché, quanto più mi umiliavo davanti a te, tanto più credevo di piacerti, e di recare minor danno alla tua gloria”. L’encomio celebrativo: “Quale regina, quale donna potente non invidiava le mie gioie e il mio letto? Tu avevi due cose in particolare che ti rendevano subito caro a qualunque donna: la grazia dei tuoi versi e il fascino dei tuoi canti, due cose che di solito i filosofi non hanno… e io divenni oggetto di invidia agli occhi di molte donne”. La confessione erotica: “Per me, in verità, i piaceri dell’amore che insieme abbiamo conosciuto sono stati tanto dolci che non posso né odiarli né dimenticarli. Dovunque vada, li ho sempre davanti agli occhi e il desiderio che suscitano non mi lascia mai. Anche quando dormo le loro fallaci immagini mi perseguitano. Perfino durante la santa Messa, quando la preghiera dovrebbe essere più pura, i turpi fantasmi di quelle gioie si impadroniscono della mia anima e io non posso far altro che abbandonarmi a essi e non riesco nemmeno a pregare. Invece di piangere pentita per quello che ho fatto, sospiro, rimpiangendo quel che ho perduto. E davanti agli occhi ho sempre non solo te e quello che abbiamo fatto, ma perfino i luoghi precisi dove ci siamo amati, i vari momenti in cui siamo stati insieme, e mi sembra di essere lì con te a fare le stesse cose, e neppure quando dormo riesco a calmarmi”. L’accusa esplicita: “sarò costretta a dire io quello che penso o meglio quello che ormai tutti sospettano: i sensi e non l’affetto ti hanno legato a me; la tua era attrazione fisica, non amore, e quando il desiderio si è spento, con esso sono scomparse anche tutte le manifestazioni d’affetto con cui cercavi di mascherare le tue vere intenzioni… Perché tu sai bene che ho accettato di sacrificare la mia giovinezza nell’austerità della vita monastica non per vocazione ma solo per ubbidire a un tuo preciso ordine: e ora giudica pure tu a che cosa mi è servito tutto ciò, se tu non mi degni neanche di una parola”.
Così le rispondeva Abelardo, solenne e sempre compreso nella sua funzione religiosa, suffragando ogni affermazione con l’autorità dei testi sacri o la profondità teorica dei filosofi antichi, insistendo con toni di rammarico e deplorazione sul sentimento che li aveva uniti nella colpa e nella meritata punizione, incoraggiando la donna alla continenza e alla castità, senza nascondere un supponente fastidio e un contrariato rimprovero per le insistenze di lei: “A Eloisa, sorella carissima in Cristo, Abelardo, suo fratello in Cristo… sorella un tempo tanto cara nel mondo, ma ora ben più cara in Cristo: il salterio certo ti gioverà moltissimo per offrire al Signore un perpetuo sacrificio di preghiere in espiazione dei nostri numerosi e gravi peccati… ti sei abbandonata ancora una volta alle tue solite recriminazioni nei confronti di Dio per il modo in cui siamo stati indotti a ritirarci in monastero e per la crudele vendetta di cui sono stato vittima… Non dire mai più cose del genere, ti prego, ed evita lamentele come queste che non sono certo dettate da spirito di carità… Non è certo il caso che stia a ricordarti tutte le cose sconce e vergognose, tutti gli atti immorali, tutte le sozzure che hanno preceduto il nostro matrimonio… Tu sai a quale turpe schiavitù aveva asservito i nostri corpi la mia sfrenata passione: non c’era alcuna forma di decenza e alcun rispetto per Dio, neppure nel giorno della sua morte in croce e neanche in occasione delle più grandi solennità, che potesse impedirmi di rotolarmi in quel pantano… Non mi rimane, infine, che affrontare quella tua ormai vecchia ma sempre attuale lamentela per cui, riguardo al nostro ingresso in convento invece di ringraziare Dio, come sarebbe giusto, hai la sfrontatezza di accusarlo. Fa’ appello al tuo sentimento religioso per non essere separata da me anche quando andrò con Dio, e pensa che il fine ultimo di tutto questo è la felicità eterna, e che i frutti di questa felicità saranno più dolci se noi li gusteremo insieme… Dio, nella sua misericordia, si è servito della sua giustizia per rimetterci sulla retta via, ha saputo trarre il bene anche dal male, ha sfruttato per giusti fini anche la nostra empietà”. Terminava la sua ultima lettera inviando a Eloisa una lunga preghiera da lui stesso composta perché chiedesse il perdono divino per entrambi, e così chiudendo devotamente il loro rapporto: “Tu, Signore, ci hai uniti, tu ci hai separati, quando hai voluto e come hai voluto. Ora, Signore, conduci misericordiosamente a termine ciò che non meno misericordiosamente hai iniziato, e unisci a te per sempre in cielo coloro che una volta hai separato qui nel mondo, tu nostra speranza, nostra eredità, nostra attesa, nostra consolazione, o Signore che sei benedetto in tutti i secoli, Amen. Salute in Cristo, sposa di Cristo, in Cristo salute e vita, Amen”.
Su questo appassionato e appassionante epistolario si sono pronunciati molti studiosi, esprimendo perplessità sulla reale autenticità soprattutto delle prime due lettere di Eloisa, e addirittura attribuendo a lei un’età più adulta di quella dell’amante. Rimane comunque inalterata la fondamentale testimonianza di un rapporto erotico e intellettuale la cui fama ha varcato un millennio di storia, e ancora richiama pellegrini da tutto il mondo alla tomba che, secondo la leggenda, li conserva abbracciati in un’unica bara per l’eternità.
ABELARDO ED ELOISA, HO AMATO SOLO TE – GARZANTI, MILANO 2022, p. 112
Traduzione dal latino di Federico Roncoroni
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