Letteratura

Lungo viaggio verso la notte

Un reportage narrativo e fotografico che indaga il confine tra vita e fine vita.

23 Ottobre 2025

L'ultimo viaggio. Storie di vita e fine vita - Angelo Ferracuti,Giovanni Marrozzini - copertina

 

Angelo Ferracuti (Fermo, 1960), scrittore soprattutto di reportage narrativi con alta valenza civile, e Giovanni Marrozzini (Fermo, 1971), fotografo, hanno realizzato in fattiva collaborazione un volume di grande interesse e forte impatto emotivo: L’ultimo viaggio. Storie di vita e fine vita, che ha richiesto una lunga gestazione e numerosi viaggi in giro per l’Europa, oltre a periodi di osservazione presso diversi hospice, case di cura, ospedali, cliniche psichiatriche e strutture riabilitative italiane. Incoraggiati e sostenuti dalla professionalità di medici e infermieri, dalla dedizione di varie associazioni e onlus, appoggiati dalle esperienze trasversali di amici, famiglie e ricoverati, i due autori hanno raccolto le testimonianze di molte persone che “si trovano a un passo dal varcare la soglia… continuando a lottare per ogni respiro, ogni istante, ogni sorriso” riservato loro da una quotidianità dolorosa, difficile, ma ancora degna di venire raccontata.

I due repertori fotografici che aprono e chiudono il volume illustrano in bianco e nero, con empatica delicatezza, momenti di sofferenza fisica e psichica di degenti terminali, accostandoli a immagini di un loro passato felice, o di ambienti naturali più rasserenanti. Si alternano anche ritratti crudi di cadaveri, di volti devastati dalla stanchezza, di interni squallidi che contrastano con la pulizia e l’ordine dei nosocomi, di sorrisi incoraggianti del personale ospedaliero.  La sezione finale è dedicata alla figura di Graziella, una donna marchigiana malata di SLA, il cui tormento fisico viene descritto narrativamente nell’ultimo capitolo del libro. Ormai incapace di muoversi e parlare, comunica col mondo indicando con gli occhi le lettere dell’alfabeto su una lastra di plexiglas, accudita amorevolmente e pazientemente dai figli, e con il soccorso saltuario di badanti non sempre altrettanto sollecite: Graziella rimane comunque aggrappata con forza alla vita che pulsa intorno a lei.

Ferracuti nella sua scrittura si concentra non solo sull’aspetto umano delle vicende narrate, ma si rivela anche osservatore attento dell’ambientazione esterna, tentando una corrispondenza tra dentro e fuori che alleggerisca la cappa plumbea del male. “In questa campagna marchigiana  nei dintorni di Fermo non c’è un ettaro abbandonato, un campo incolto, una sola fetta di terreno imbarbarita, un orto abbandonato, un albero non curato… Sono luoghi quieti e fiabeschi, antichi e scarsamente abitati, selvatici, le case coloniche che si alzano su piccoli poggi, le strade di polvere che serpeggiano, le balle di fieno incendiate di luce depositate su un tappeto di terreno mietuto, e un crocevia di piccole strade che improvvisamente cominciano a salire per arrivare in cima a borghi incantati e solitari”.

Sempre nelle Marche è collocato il primo reportage del volume, e precisamente nella cittadina di Montegranaro, in una zona operosa di fabbrichette calzaturiere. Nel nosocomio locale, all’ultimo piano si trova l’hospice che accoglie i degenti a cui restano pochi giorni di vita. Ferracuti ascolta le testimonianze di malati, parenti, oncologi, infermieri e volontari che raccontano, alcuni con angoscia altri con rassegnata consapevolezza, come l’attesa della morte diventi quotidianità a cui lentamente ma inevitabilmente ci si abitua. L’autore ne parla con la partecipazione di chi ha vissuto da vicino la tragedia di un abbandono, avendo curato per anni la moglie uccisa da un tumore. Esprime la propria impotenza, la disperazione, la rabbia: sentimenti provati da ciascuno di noi, di fronte all’agonia dei propri genitori, del coniuge, di un parente giovane a cui è stato negato il domani.

Nei pressi di Basilea, l’incontro con la dottoressa Erika Preisig (“la corporatura e il portamento da suora laica, un misto di determinismo nordico e misticità”) è rivelatore di quanto la pratica del suicidio assistito sia ormai accettata e condivisa anche dai credenti, nella convinzione che Dio non condanni chi si sottrae intenzionalmente a sofferenze insopportabili: nella stanza destinata ad accogliere i malati, il decesso arriva indolore in quattro minuti. Vicino a Zurigo, l’associazione Dignitas si occupa del fine vita, offrendo assistenza anche a molti italiani devastati dal male che non trovano alcuna solidale comprensione nella legislazione del nostro paese. Centinaia di casi catalogati in cartelle descrivono la disperazione di chi è rimasto solo o di chi non vuole più pesare sulla famiglia; di atei, buddisti, cristiani che ritengono sia diritto di ciascuno decidere della propria esistenza. Dignitas è infatti un’organizzazione laica e liberale, nel cui programma si sancisce “il diritto alla propria libertà fintanto che questa non lede gli interessi pubblici e gli interessi legittimi di terzi”.

Ancora altre esperienze, altri viaggi, tracce e indizi raccolti su chi lavora a fianco di infermi per alleviarne le sofferenze, e di chi rischia persecuzioni legali sostenendo l’eutanasia. La legge chiude ipocritamente gli occhi su tale pratica, quando ormai si può ottenere per trentacinque dollari un kit della morte, ordinabile sul sito internet di una fondazione australiana che fornisce il Pentobarbital, e tanti altri metodi di auto-soppressione vengono attuati aggirando le leggi.

Uli Davids, direttore a Berlino di una struttura per alcolisti all’ultimo stadio, concede ai suoi degenti di consumare alcol senza limitazioni prima di lasciarsi andare. Il cancerologo Franco Cavalli, che a Bellinzona ha assecondato il suicidio volontario di Lucio Magri, fondatore nel 1969 del Manifesto, portando alle cronache nazionali il dibattito sul fine vita. A Oslo, il sacerdote Trond Enger della Chiesa protestante norvegese, in opposizione alla gerarchia ecclesiastica afferma che conservare la vita a prezzo di un dolore infinito non è il bene supremo, da attribuire invece solo all’amore per il prossimo. Ad Amsterdam, dove vige una consuetudine etica e legale assai permissiva rispetto all’eutanasia, incontri agguerriti e propositivi nei confronti dell’accompagnamento a una morte dolce si rivelano quelli con lo psichiatra Chabot, con il giornalista Dick Bosscher e lo scrittore Johannes Agterberg, convinti che l’aumento mondiale della popolazione anziana e malata indicherà nuove strade verso l’eliminazione del dolore fisico e una maggiore flessibilità riguardo al fine vita, senza che per disperazione alcune persone scelgano di porre termine ai loro giorni in maniera cruenta.

Ferracuti intervalla le sue narrazioni commentando libri letti, film visti, appuntamenti concessi o negati, perché tutto ciò che facciamo parla di vita e di morte, arricchendoci o privandoci di qualcosa di essenziale: così spesso tendiamo a censurare i nostri pensieri e sentimenti, a nascondere malinconie e rimpianti, aggrappandoci ai ricordi, negando con caparbietà la prossima scomparsa di chi amiamo e quella futura e inconfutabile di noi stessi. Come se non sapessimo che “la morte non cela alcun mistero, alcuna porta: è la fine di una creatura umana”, come scriveva Norbert Elias. Ce l’ha insegnato recentemente, con la sua scelta coraggiosa e piena di dignità, Laura Santi. Ce lo ricorda l’impegno risoluto dell’Associazione Luca Coscioni, insieme alle attività di tante diverse e valorose onlus.

 

 

ANGELO FERRACUTI-GIOVANNI MARROZZINI

L’ULTIMO VIAGGIO. STORIE DI VITA E FINE VITA – IL SAGGIATORE, MILANO 2025, pagine 200

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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