Letteratura
Morte del romanzo, della poesia, dell’arte? Se ne parla da due secoli
Più che di morte dell’arte bisognerebbe palare di morte del pensiero, della voglia di pensare.
Morte del romanzo, morte della poesia, morte della musica, morte dell’arte. Probabilmente a morire non sono il romanzo, la poesia, l’arte, la musica: ma la voglia di pensare. Salvo, forse, il cinema. Ma non in Italia dove anche il cinema s’incanala in canali già scavati. Paradossalmente le vituperate avanguardie del secolo scorso sembrano di nuovo mostrarci una via di scampo. Ma è un’illusione. La storia non si ripete. Riproporle sarebbe nient’altro che riproporre il già concluso, e dunque un cadavere. Il problema è scendere alle radici del pensare. Ci vuole un Aristotele, un Kant, uno Hegel, ma magari addirittura un Kirkegaard, un Wittgenstein che smonti i meccanismi del linguaggio e li rimonti in altro modo, un modo che faccia di nuovo scattare il pensiero, vale a dire il confronto con la realtà. La lingua che usiamo, la realtà non la rappresenta più. La maschera, la nasconde, e ce ne mostra la faccia allettante, quella che ci piace guardare. La realtà – o meglio quella che noi rappresentiamo come realtà – è il ritratto di Dorian Gray. La poesia che sondando l’illogico ci fa rimpiangere il logico è forse un grimaldello per restituire alla lingua la sua capacità di rappresentazione. Ma non la capisco, obietta qualcuno. E perché, Arminio invece lo capisci? o semplicemente ti rispecchia ciò che vuoi sapere, la consolazione che tutto va bene, che le parole cantano ancora i sentimenti, i buoni sentimenti. Ecco il successo dei Rachmaninov, degli Einaudi, degli Allevi. Già Haydn è troppo intricato, Schumann un rompiscatole. Meglio Galuppi, allora, o Vivaldi. L’illusione di una corrispondenza di “amorosi sensi” tra ciò che leggi, che ascolti, che vedi e la tua vita. Guai a chi ti svela che appunto è un’illusione, che la vita è altro. Un’ubriacatura di banalità per dimenticare l’insopportabile, il tremendo, il non evitabile.
Quando, dall’età della pietra, l’arte, quella che davvero possiamo chiamare arte, non ha fatto altro che rappresentare l’insopportabile, il tremendo, il non evitabile (si pensi solo alla tragedia greca o prima, alle pitture nelle caverne), e quando ha proiettato un mondo ideale, per esempio nel neoclassicismo, non ha finto che fosse vero, ma lo ha indicato come modello di ciò che dovrebbe essere il mondo e non è. È questo salto, questa distanza che manca all’arte di oggi. Il rifiuto di guardare l’abisso, pensando così di cancellarlo o quanto meno di evitarlo. Ma l’abisso c’è: e non guardarvi dentro, rischia di farci precipitare tutti là dentro, proprio perché non lo guardiamo, non lo vogliamo. Viviamo un’epoca di Narcisi sconsiderati. Ci basta l’attimo, la soddisfazione, il godimento immediato, magari artificiale, e non pensare al domani. L’oggi ci basta, anzi è già troppo, sommergiamolo di bugie, per non vederlo com’è. Picasso ci ha già ritratti, così come oggi siamo diventati: nel 1901. Alla ricerca spasmodica di qualcosa che la realtà ce la faccia dimenticare. Bevitori instancabili di assenzio. Poco importa se sia musica, poesia, romanzo, pittura, o cocaina.
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