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Teatro

La magia di un tempo: il teatro di Strehler

di Dino Villatico

Rievocazione, vivissima, di una stagione irripetibile del teatro italiano: Strehler.

12 Febbraio 2025

Sbuca da una botola del pavimento bianchissimo del Teatro di Documenti. Se ne era sentito invocare da più voci il nome: “Alighiero! Alighiero!” Esce a fatica dalla botola, con un modellino di veliero tra le mani. Si presenta al pubblico. È il suggeritore di Strehler. Eh già. Un tempo a teatro c’era il suggeritore. Oggi gli auricolari hanno usurpato il suo ufficio, così come un microfono l’uso naturale della voce. Naturale, nel senso di com’è, di come esce dalla bocca, non amplificata. Sta all’attore graduarne le diverse modalità, intonazioni, spessori, volumi. Che la maschera antica ampliasse la voce è da dimostrare. Anche gli attori giapponesi usano maschere, ma di amplificazione non se ne sente l’ombra. Oggi no, serve l’amplificazione: con la conseguenza che sulla scena o si sente strillare o il sussurro è talmente fioco da non percepirne le parole. Marchingegni del genere andrebbero proibiti a teatro. Gli attori greci recitavano per un pubblico di 15.000 spettatori, e li udivano anche quelli seduti sull’ultima gradinata in alto. Il problema non sono i microfoni, ma come si costruisce un teatro. Il Teatro di Documenti fu costruito da Luciano Damiani, a Testaccio, nel 1981. Nelle grotte delle rovine di Testaccio. Le pietre intorno hanno 2.000 e più anni. dentro è tutto uno spazio immacolato di più sale. Non c’è platea, non ci sono file di poltrone, attori e pubblico occupano lo stesso spazio. Antonella Civale ci racconta, o meglio ci fa rivivere decenni del teatro italiano. È lei Alighiero. Il suggeritore. Ma anche Calibano, Ariele, lo stesso Strehler. Il centro del racconto sono le prove per la messa in scena della Tempesta di Shakespeare. un testo che è tutto una metafora del teatro. A sua volta, per Shakespeare, metafora della vita. Impressionante, Calibano, avvolto in un mantello nero, curvo per terra, non si vede la faccia, che si urla in gola, una voce che rimbomba nel petto: “Questa isola era mia!” Affascinante il telo di seta che agitato dal vento – in realtà dalle mani dell’attrice – è il mare. Per un’ora e mezzo lo spettatore è trascinato a rivivere ciò che era il teatro italiano della seconda metà del secolo scorso. Il testo e la drammaturgia dello spettacolo sono ideati e scritti da Marco Carniti, che è anche il regista, cioè il Prospero della visione, e da Antonella Civale, la figura che sbuca all’inizio dalla botola. Una botola che nei teatri di un tempo era una cupoletta che lo nascondeva. Il suggeritore è in qualche modo tutti gli attori della recita, la loro anima, il loro sostegno, senza il quale crollano a terra muti. Ma è anche la loro memoria. E qui, è la memoria collettiva di un’Italia che non c’è più. Non perché non ci sia più teatro in Italia – e se non altro questo spettacolo testimonia che c’è -, ma perché non c’è il teatro che sia ancora lo specchio, la cassa di risonanza, della società. O piuttosto, c’è, ma è la società italiana di oggi che non ne ha bisogno. E dunque il teatro non può rifletterla, restituirla a un pubblico che cerca, vuole altro. Shakespeare è troppo complicato, troppo colto. Ci vogliono storie semplici, di tutti giorni. Che sono queste streghe, questi elfi, questi libri di magia? Quale magia in un’epoca che può farne a meno, perché c’è la televisione, ci sono i giochi virtuali, i giochi di ruolo, c’è il fantasy – mica le storie fantastiche, i cavalieri della tavola rotonda, Chrétien de Troyes, Ariosto, Lancillotto, Ginevra, Perceval, Fierrabras, Alcina, Ruggero, Ariele, Calibano – c’è l’isola dei famosi, il grande fratello? Però … ascoltate quante voci può modulare Antonella Civale, quante maschere assumere senza indossarne nessuna. Ecco. era questo il teatro: quello che sulla scena è mille altre figure, e che ogni oggetto afferri, maneggi è qualcos’altro, figura di qualcos’altro.

Diciamola la parola: era metafora, rappresentazione, rappresentazione della vita, con una raffigurazione della vita che non è la vita, ma la sua trasfigurazione, la sua poesia, poesia anche del terribile, del démone che abita in ciascuno di noi. Oggi il terribile non si vuole vedere, lo si vuole anestetizzare. O partono querele, denunce. Che si offende il pubblico, si denigra una comunità, si esalta la violenza. Il confine tra realtà e finzione non è percepito, e dunque non si coglie quanto la finzione, anche dell’estremo, del non dicibile, possa modificarla, salvarla, la realtà. Ma scusi, non è corretto, si obietta. E da quando la correttezza è stata il compito della scena? Mirra è incestuosa, Medea ammazza i suoi figli, Macbeth raggiunge il trono assassinando un re, Shylock è un ebreo tutt’altro che esemplare: è corretto tutto questo? Sono corrette le guerre? E soprattutto: esistono figli o padri incestuosi, madri assassine, potenti che raggiungono il potere con i crimini, o scatenando guerre? E allora il teatro li rappresenta. Datemi un mondo senza assassini, senza ladri, senza prostitute, e io non racconterò nei miei romanzi delitti, rapine, bordelli, disse Zola al processo che gli s’intentò per l’immoralità dei suoi romanzi.

Nello spettacolo ci sono anche musiche e si ascoltano le musiche di Fiorenzo Carpi. E quel mondo teatrale italiano prende consistenza sonora. Al suono, alla musica delle parole si aggiunge la musica che senza le parole dice, racconta più delle parole. C’è anche il valzer del Giardino dei ciliegi. ma c’è, anche, il rumore di scena che si fa musica di scena, il gancio di Ariele – Giulia Lazzarini! – che si riattacca alla trave e scatena un cataclisma sonoro. Chi ascolta, e chi scrive queste note tra questi, si rammenta di tante altre volte in cui una voce, un rumore erano momenti del dramma. Per esempio, nelle Baruffe chiozzote di Goldoni i pescatori che si chiamano da un lato all’altro della scena e delle loro donne che si azzuffano. O, nei Giganti della montagna, Pirandello, il sipario di protezione, di metallo, che precipita sulla carretta degli attori, alla fine, e chiude il racconto. Come Prospero che, alla fine della rappresentazione, congeda gli elfi, e spezza la bacchetta magica, ma qui con il chiasso della catastrofe conclusiva. O le paure di Weiss, nei Lager, nelle colonie portoghesi, dove imperversa il Mostro Lusitano. Ma, soprattutto, che sia solo l’attore, il suo corpo, la sua figura, a inventarsi un mondo, a rappresentarlo, e gli effetti di scena, gli oggetti, non siano che una sua proiezione, un gesto, non delle mani, del corpo, ma degli oggetti, espressivi, attivi, quanto i gesti del corpo, quanto le parole che escono dalla bocca. Come appunto il veliero all’inizio, che il suggeritore tiene in mano, e che è la nave del naufragio in cui non muore nessuno, ma che naufraga sulle rive dell’isola, perché la magia di Prospero possa produrre il suo salvifico effetto. La vita che comincia con un naufragio, da cui ci si salva con il perdono, la clemenza, la comprensione del dolore degli altri. Ecco: il teatro ci mostra sulla scena il dolore degli altri per farcelo sentire dolore di noi stessi. Aristotele lo aveva capito meglio di chiunque altri: sulla scena non prende forma il vero, ma la sua rappresentazione, e alla vista della rappresentazione il vero, che siamo noi, si cambia, si depura, i greci la chiamavano catarsi. Noi potremmo chiamarla cognizione. Quella così bene raffigurata da Gadda nella Cognizione del dolore. Il teatro ci procura quella consapevolezza che la vita, vivendola e basta, ci toglie. Basta un verso di Shakespeare: “… thou wouldst not / think how ill all’s here about my heart”. Come scrive Strehler in una lettera ad Agostino Lombrado, il traduttore della Tempesta, durante le prove dello spettacolo: “Oggi non ci sono più sentimenti. Ma emozioni che passano subito e si buttano via”. E con queste parole il Suggeritore ci avverte, all’inizio, dentro quale mondo stiamo per entrare. Terrificante constatare come dopo più di mezzo secolo le parole di Strehler raccontino l’Italia di oggi, priva di sentimenti, ma avida di emozioni.

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