Lo smart working emergenziale: un’occasione, non un vincolo

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23 Ottobre 2020

Sempre più spesso si legge che l’emergenza sanitaria ha modificato i metodi tradizionali di organizzazione del lavoro, offrendo al lavoro agile un impulso incredibile e favorendo, in prospettiva, l’affermarsi dello smart working quale modalità normale di esecuzione della prestazione di lavoro subordinato. Nell’affermazione c’è senza dubbio una parte di verità posto che la situazione emergenziale ha dimostrato, molto più che in passato, come il lavoro agile rappresenti uno strumento finalizzato a realizzare dei piani di conciliazione tra vita e lavoro, favorendo a livello sociale anche fenomeni quali il c.d. south-working o, in un’ultima analisi, una redistribuzione della ricchezza.

Ma è indubbio come quest’ultima rappresentazione della modalità di lavoro, di fatto, sia adatta ai bisogni ed alle necessità primariamente di una nuova figura di lavoratore subordinato, altamente professionalizzato, in certa misura emancipato dal vincolo di presenza, di orario e di prestazione continuativa, più avvezzo ad auto-organizzare la propria prestazione di lavoro svincolandola da un facere continuativo, per ancorarla invece al raggiungimento di obiettivi e alla realizzazione di progetti, e quindi allentando il legame con le coordinate spazio temporali della ordinaria prestazione di lavoro.

Si assiste, insomma, ad una valorizzazione dell’autonomia individuale che esalta la natura fiduciaria del rapporto di lavoro e impatta considerevolmente anche sul sistema di controlli che il datore di lavoro può predisporre per evitare la perpetrazione di illeciti a proprio danno, senza peraltro ricadere, secondo una logica non accolta a livello ordinamentale, nel monitoraggio dell’attività di lavoro.

La disciplina statutaria e in materia di privacy impone, per il venir meno del tratto caratterizzante del modello ordinario di lavoro (la presenza), importanti ripensamenti delle policy aziendali e regolamentari, senza dimenticare, peraltro, che è sempre l’autonomia delle parti ad individuare le forme di organizzazione della prestazione di lavoro agile che può svolgersi per «fasi, cicli e obiettivi» e può riguardare anche solo periodi predefiniti. Quest’ultima dunque può adattarsi alle diverse esigenze del lavoratore o dell’impresa, essere appunto a termine, o legata alla realizzazione di determinati obiettivi, o ripetersi ciclicamente.

Ma non si deve dimenticare che lo smart working è, prima di tutto, una modalità di lavoro che deve tendere a rispondere, primariamente, all’interesse del creditore della prestazione di lavoro, ovvero dell’impresa. Per questo la soluzione emersa recentemente di fissare la quota di lavoro agile ad almeno il 75% – che, peraltro, dovrebbe trovare applicazione solo nell’ambito della Pubblica Amministrazione, mentre per l’impiego privato il ricorso allo smart working resterebbe una misura consigliata, senza la fissazione di percentuali minime o massime – potrebbe risultare, in prospettiva, controproducente, posto che è solo il datore di lavoro a poter valutare la possibilità e opportunità di ricorrere e in quale misura al lavoro a distanza, anche ai sensi dell’art. 41 della Costituzione.

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TAG: coronavirus, Covid_19, Lavoro, pandemia, smartworking
CAT: lavoro dipendente

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