Diritto e percezione dei diritti

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10 Dicembre 2018

“La piazza va sempre assecondata”, ha dichiarato un esponente dei Cinque Stelle.

Non è sulla fallacia di una simile affermazione – fallacia evidente – che credo sia necessario oggi riflettere. Bensì sul pensiero che l’opinione – opinione, si badi, non verità – di una maggioranza debba sempre imporsi contro qualsiasi opposizione di qualsiasi minoranza, addirittura a dispetto di un’inattaccabile razionale confutazione. In parole povere il numero per questa maggioranza fonderebbe la verità.

Tale pensiero è oggi diffusissimo, in tutti i campi del sapere e della convivenza. Innocuo, in alcuni campi, pericoloso in altri. Faccio solo due esempi.

Sta diventando di moda, anzi perfino un segno di ragionevolezza, per molti, la rivolta del buon senso contro le astruserie di pochi intellettuali snob, per quasi tutti, denigrare come “punitivi”, “sterili”, “assurdi”, alcuni capolavori dell’arte del Novecento e in particolare i loro autori, Joyce, Boulez, Pollock. Poco male. Vorrà dire che mi godrò da solo la sovrana intensità di pensiero e di bellezza di questi capolavori. Del resto, la resistenza al nuovo, il rifiuto del moderno, è tradizionale nella cultura italiana. Basti ricordare, all’inizio dell’Ottocento, le reazioni dei letterati italiani alla lettera di Madame de Staël sull’utilità del traduzioni. Non abbiamo bisogno di Goethe e di Byron, perché abbiamo Dante e Petrarca, dicevano i letterati italiani. Non ce li avete più, rispose Madame de Staël. E quelli che c’erano: Manzoni, Leopardi, le diedero ragione.

Ma il discorso cambia quando si scende in politica. Un diritto, per esempio, non è una concessione che si può generosamente regalare o rabbiosamente rifiutare. Un diritto è un’inattaccabile prerogativa di ciascuno, per esempio a essere giudicato con uguaglianza, rispettato per le proprie scelte di vita. E’ qui che la società italiana di oggi – ma non solo quella italiana – sembra andare fuori strada. Sembra, anzi, proprio nel momento stesso in cui gli italiani giudicano l’Italia la “patria del diritto”, che gli italiani non capiscano o non vogliano capire che cosa sia un diritto. Lo scontro si fa feroce, per esempio, sulla discriminazione dei cittadini, su chi anzi abbia diritto a dichiararsi cittadino e chi no.

 

Devo, in questo caso, assecondare il rancore delle piazze o sono tenuto invece a osservare l’osservanza di un diritto? Il buonismo e il cattivismo, che vengono spesso tirati in ballo, non c’entrano. E’, anzi, un fuorviare il discorso, una semplificazione che invece di chiarirlo, confonde il problema. Che non riguarda l’atteggiamento morale, la disposizione affettiva verso qualcuno, bensì il riconoscimento e il rispetto di un diritto inviolabile. E’ dal 14 luglio 1789 (in realtà fu solo l’inizio del processo, la dichiarazione dei diritti avvenne un po’ dopo) che ne abbiamo preso coscienza. E da quel momento o si sta da una parte o dall’altra: o dalla parte del diritto, e ci si può dichiarare civili, o da quella che nega i diritti, anche un solo diritto di una sola persona, e ci si colloca automaticamente nella foltissima schiera degli incivili.

La percezione delle masse non c’entra. E’ almeno dal tempo di Locke e di Hume che ci si è accorti quanto la percezione umana possa sbagliare. C’entra, appunto, invece, il diritto, la natura stessa del diritto. E un diritto, con una parola oggi di moda, non è “negoziabile”, è qualcosa che c’è. Posso negarlo, non vederlo, non riconoscerlo, posso perfino opprimerlo, eliminarlo dalla mia legislazione, ma c’è, e niente e nessuno potrà cancellarlo, eliminarlo, nemmeno il ricorrere a un crimine, a un eccidio, a un genocidio. Avrò eliminato persone, uomini, ma non avrò potuto eliminare il diritto di quelle persone, di quegli uomini a essere persone, uomini con gli stessi diritti di tutti gli altri uomini. Anzi sarò incorso io nel crimine di violare proprio questo diritto.

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CAT: diritti umani

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