Stefania Maurizi è la giornalista italiana che meglio conosce il lavoro di Julian Assange, Glenn Greenwald ed Edward Snowden. Collabora con il Fatto Quotidiano, dopo quattordici anni a Repubblica e all’Espresso. Abbiamo parlato con lei del caso Assange, dopo che ieri la giudice britannica Vanessa Baraister ha respinto l’istanza di estradizione: sarebbe troppo oppressiva per ragioni di salute mentale, ha stabilito.
Maurizi, come definirebbe il suo lavoro in relazione a ciò per cui viene perseguitato Assange?
Ho lavorato ai documenti di Wikileaks con Assange e molti altri (del Washington Post, Deutsche Zeitung, El Paìs…) a partire dal 2009, quando era poco conosciuto. Ho pubblicato per undici anni le sue stesse rivelazioni, ma io l’ho potuto fare in modo sicuro. Assange invece si è dovuto chiudere in un’ambasciata e poi è stato condotto in carcere. Perciò ne parlo. C’è un accanimento: vogliono utilizzare lui per dare un segnale a tutti i giornalisti. Con Wikileaks ha pubblicato, in partnership con altri, i cablo della diplomazia, informazioni su Guantanamo, sulle guerre americane in Iraq e Afghanistan e il famoso video ‘Collateral Murder’, che mostra l’esecuzione di civili iracheni disarmati durante la guerra in Iraq nel 2007, con i dialoghi tra i militari e i loro superiori. Contro di lui è in atto una guerriglia legale. Ora rischia il carcere di massima sicurezza, a vita. Vogliono mandarlo all’ADX Florence, lo stesso dove è detenuto El Chapo.
In Italia si parla molto di libertà di stampa ma pochissimo di questo caso.
Questo mi fa infervorare, perché è un’ulteriore ingiustizia. Quello di Assange è un caso cruciale, perché ci deve sempre essere, in democrazia, la libertà di rivelare verità. Deciderà il futuro del giornalismo: sia nelle democrazie, dove c’è il First Amendment, sia nei paesi non democratici, i quali se Assange andrà in carcere a vita si sentiranno sempre più autorizzati a perseguitare i giornalisti.
Cosa pensa del film Quinto potere di Bill Condon, con Benedict Cumberbatch e Alicia Vikander, ora disponibile gratuitamente su Raiplay, basato su libri scritti da suoi colleghi e incentrato proprio su Wikileaks?
Pessimo, non fattuale, inaffidabile. Purtroppo nessun giornalista, tranne me, ha ricostruito il caso, ma ieri a Londra c’erano decine di giornalisti dalla parte di Assange, che mostravano sue foto.
Qual è stato il ruolo della stampa inglese?
È sempre stata dalla parte del governo inglese. Deve servire una giornalista italiana per investigare su questo caso? I procuratori svedesi si rifiutarono di andare a Londra per interrogare Assange e mandarlo a processo con l’accusa di stupro o altro. Io ho messo in piedi un FOIA – che è una tecnica base di giornalismo investigativo [per avere accesso alle informazioni detenute dalle pubbliche amministrazioni]. Così ho potuto scoprire che le autorità inglesi pretesero che Assange fosse interrogato solamente una volta estradato in Svezia. Inoltre si è parlato di uno stupro quando lui ebbe un rapporto consensuale senza profilattico. Assange non è mai stato rinviato a giudizio. È stato per dieci anni senza un processo perché non c’erano prove. Solo nel 2019, dopo che gli Stati Uniti lo avevano incriminato, hanno chiuso il caso. Ed io ho fatto causa a quattro governi perché mi negavano i documenti.
L’accusa di violenza è stata fatta per metterlo in difficoltà.
Sì, per fargli perdere empatia da parte della popolazione, perché è inevitabile solidarizzare con la donna. Ma senza processo non c’è verità giudiziaria e lui viene considerato uno stupratore.
Cosa succederà adesso?
Gli Stati Uniti andranno in appello ma non sappiamo cosa voglia fare il nuovo presidente Joe Biden. Quello che è certo è che Assange è incriminato per una legge del 1917 contro le spie, l’ Espionage Act, e che ha preso documenti da Chelsea Manning, whistleblower e analogamente perseguitata. Ora Assange rischia il carcere come i peggiori criminali e questo può costituire un precedente da usare contro altri.
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