Le cause economiche della guerra in Ucraina e la possibilità di una pace vera

27 Febbraio 2022

1.

Non molti oggi se ne ricordano, probabilmente, ma dal 1990 al 1994 la Repubblica Federale Tedesca di Helmut Kohl versò all’URSS (e poi al suo stato successore, la Federazione Russa) l’equivalente di 71 miliardi di dollari. Come ricordava nel suo capolavoro “Postwar” lo storico Tony Judt, fu questo uno dei prezzi che la Repubblica Federale Tedesca dovette pagare al leader sovietico Michail Gorbačëv per convincerlo a non ostacolare i delicatissimi negoziati sull’unificazione.

L’URSS al crepuscolo era, da un punto di vista economico e finanziario, uno Stato in rovina. Se non era “l’Alto Volta con i missili”, poco ci mancava. La principale voce del suo export era il petrolio, e il crollo dei prezzi del petrolio nella seconda metà degli anni ’80 contribuì al collasso del sistema economico sovietico negli anni della perestroika (del resto nel febbraio del 1986 l’OCSE, pronosticando un lungo periodo con il petrolio tra i 18 e i 20 dollari, aveva stimato che un prezzo così basso avrebbe senz’altro giovato all’Occidente, ma danneggiato le economie idrocarburiche dei paesi produttori, URSS inclusa).

Anche la Russia di oggi è legata a doppio filo all’export di greggio e gas. Non solo è uno dei maggiori esportatori mondiali di greggio (il secondo, nel 2019; al quinto posto, gli Stati Uniti), ed è nel complesso il maggior esportatore mondiale di gas naturale (e il secondo produttore dopo gli Stati Uniti), ma il valore dell’export di combustibili costituisce oltre la metà di tutto il valore dell’export russo. E se all’export di combustibili (264,5 miliardi di dollari fob) si aggiunge anche quello di minerali e metalli (51,4 miliardi di dollari fob), si arriva a quasi 316 miliardi di dollari fob: quasi tre quarti di tutto l’export russo.

Insomma, sono trascorsi ormai più di trent’anni dalla fine dell’URSS, ma l’economia russa continua a essere un’economia idrocarburica, e anche se non si può probabilmente parlare di “rentier state”, la Russia (un paese, a metà del XX secolo, all’avanguardia in molti settori, come la ricerca nucleare, l’aerospaziale e persino l’informatica) è soltanto al 52° posto nell’Economic Complexity Index (2019): un piazzamento inferiore a quello dell’Ucraina (al 47° posto) e della Bielorussia (al 31°), per non parlare di paesi avanzati come l’Italia (al 15°) o la Germania (al terzo posto). Il PIL russo nel 2019 era inferiore a quello canadese, il PIL pro capite inferiore a quello della Polonia (e poco superiore a quello della Bulgaria, il più povero tra i paesi del Patto di Varsavia). Ancora, tra il 2014 e il 2019 la crescita media annua del PIL reale russo è stata dello 0,8%: troppo poco (inferiore persino al dato italiano).

A differenza di quanto promettevano trent’anni fa il presidente russo Borís Él’cin e il suo team di “Chicago Boys” in salsa russa guidati dall’economista ultraliberista Egor Gajdar, l’economia russa non è diventata una delle prime quattro economie del mondo. Anzi.

2.

Quanto detto sopra va tenuto in considerazione per comprendere le reali cause della brutale guerra d’aggressione che la Russia sta conducendo contro l’Ucraina, e in particolare contro il legittimo governo di Volodymyr Zelens’kyj. Perché a dispetto dell’insistenza russa sulla terribile “minaccia” rappresentata da un ipotetico ingresso dell’Ucraina nella NATO (ipotetico e al momento assai improbabile: già nel 2008, al vertice di Bucarest, la Germania e la Francia si opposero all’entrata nella NATO sia dell’Ucraina che della Georgia, a causa delle forti obiezioni russe; quattro mesi dopo la Russia invadeva la Georgia), le motivazioni di carattere economico e commerciale hanno grande rilevanza.

Per prima cosa, si ricordi che l’invasione del 2014 (occupazione russa della Crimea a febbraio, annessa poi illegalmente da Mosca alla Federazione a marzo; massiccio sostegno russo alle due repubbliche secessioniste del Donbass) avvenne dopo che il presidente filo-russo Viktor Janukovyč fu rovesciato dalla Rivoluzione della dignità del febbraio 2014, scaturita dalle manifestazioni Euromaidan del novembre 2013 contro il presidente, e il suo rifiuto di firmare lo European Union–Ukraine Association Agreement.

Ciò era causato dalle forti pressioni di Mosca: sempre nel novembre 2013 il presidente russo Vladimir Putin aveva definito l’accordo di libero scambio tra la UE e l’Ucraina una “grande minaccia” all’economia russa, chiedendo retoricamente: “Dobbiamo soffocare interi settori della nostra economia perché essi [i membri della Commissione europea] ci apprezzino?”.

Secondo la testimonianza di Jovita Neliupšiene, assistente per la politica estera alla presidente della Lituania Dalia Grybauskaitė (la Lituania aveva la presidenza della UE in quel fatidico secondo semestre del 2013), il presidente Janukovyč aveva chiamato la sua omologa lituana per dirle che non avrebbe firmato l’accordo a causa delle fortissime pressioni russe; Mosca lo aveva minacciato di limitare le importazioni dall’Ucraina, colpendo in particolare le merci dell’Ucraina orientale, storico bacino elettorale di Janukovyč.

Non era la prima volta che Mosca riusciva a far cambiare idea a un’ex repubblica sovietica: a settembre anche l’Armenia aveva mandato a monte le trattative con Bruxelles. E sempre in estate il governo russo, lanciando un segnale forte al governo ucraino, aveva bloccato l’import di cioccolata Roshen (dell’influentissimo imprenditore ucraino – e futuro presidente pro-UE dell’Ucraina – Petro Oleksijovyč Porošenko, il “re del cioccolato”); inoltre l’export di merci ucraine, di colpo, veniva pretestuosamente intralciato dalle autorità russe. Alla fine lo storico accordo tra Bruxelles e Kiev veniva firmato (dal nuovo governo ucraino, nel marzo del 2014), anche se l’entrata in vigore della sezione dedicata al commercio, il DCFTA, veniva in parte rimandata a causa delle pressioni russe.

Storicamente l’Ucraina è stata un pilastro fondamentale dell’economia russa: ad es. ancora alle soglie della Grande Guerra il grano ucraino era una voce cruciale dell’export dell’Impero russo; ai tempi dell’URSS in Ucraina era dislocata una quota consistente dell’industria degli armamenti sovietica.

Nel 2012 il 25,7% dell’export ucraino finiva in Russia, e quasi il 25% nella UE; nel 2018 oltre il 40% finiva nella UE, e in Russia meno dell’8%. Se prima della Rivoluzione della dignità l’Ucraina era, da un punto di vista commerciale, legata tanto alla UE che alla Russia, oggi non è più così (anche se giocano un ruolo non irrilevante la Cina, la Turchia e la Bielorussia).

Per l’economia russa la perdita del mercato ucraino è degna di nota. Se agli inizi del corrente secolo l’Ucraina era uno dei principali clienti, una specie di mercato protetto per le merci russe, oggi l’Ucraina per l’export russo conta – da un punto di vista commerciale – meno del Belgio: questo ha senz’altro reso molto meno dolorosa per Mosca la decisione di sferrare la sua guerra di aggressione contro l’Ucraina. Ovviamente un ritorno dell’Ucraina alla sfera economica russa sarebbe una notizia positiva per l’industria pesante russa, che potrebbe acquisire il controllo dell’industria pesante ucraina (a cominciare da quella del Donbass).

E ancora, sia la Russia che l’Ucraina sono tra i principali esportatori mondiali di cereali: un’Ucraina nuovamente nell’orbita russa diminuirebbe la competizione tra i due paesi anche in questo settore. Infine, come ha notato anche John Bolton in un’intervista al Corriere della Sera, la guerra in Ucraina sta facendo fare alla Russia “un sacco di soldi” (con un meccanismo oggettivamente assai più praticato, nell’ultimo mezzo secolo, dalle potenze occidentali e arabe, come rilevato nel mio saggio “Petrolio Shock”): le entrate derivanti dai prezzi del gas naturale e del greggio alle stelle compensano in parte gli effetti economici negativi delle sanzioni occidentali.

3.

Di fronte alla brutale guerra di aggressione russa contro l’Ucraina, sanzioni economiche e finanziarie “stringenti e incisive” (per citare il presidente del consiglio Mario Draghi), e il sostegno a Kiev e al suo legittimo governo con l’invio di viveri, fondi e armi a scopo difensivo, sono senz’altro decisioni giuste, e anzi doverose. E tuttavia l’obiettivo dell’Occidente non può essere quello di far collassare la Russia, o di isolarla per anni: ciò avrebbe conseguenze geopolitiche devastanti, non in ultimo a causa della vastità del paese e del suo importante arsenale nucleare. L’ascesa di un regime ancora più autoritario e revanscista di quello putiniano, il soggiogamento della Russia alla Cina, la guerra civile tra fazioni russe sono scenari terrificanti, e che nel medio-lungo periodo danneggerebbero gravemente anche l’Europa, e l’intero Occidente.

Non si deve dimenticare che il regime putiniano è anche figlio dei gravissimi errori statunitensi (ed europei) commessi dopo il crollo del comunismo: se Stati Uniti ed Europa avessero varato nei confronti della Russia post-sovietica una sorta di Russian Recovery Program (sulla falsariga del “Piano Marshall” varato subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale), aiutando Mosca a riconvertire la sua arretratissima economia, e a diventare una vera democrazia europea, oggi non ci sarebbero i carri armati russi alle porte di Kiev; se invece delle selvagge privatizzazioni dei primi anni ’90, madri di un’oligarchia semi-mafiosa, e dell’autoritarismo alla Pinochet di Él’cin, ci fosse stato un processo di riforme “alla svedese” (come voleva Michail Gorbačëv), oggi la Russia non sarebbe un paese così profondamente illiberale, faro dei sovranismi anti-UE. Molti russi, soprattutto di mezza età, non hanno dimenticato la fame dei primi anni ’90, né la distruzione della “classe media” sovietica; sono grati al presidente Putin, che di fatto ha “deprivatizzato” l’amministrazione dello Stato, che sotto Él’cin era diventata riserva di caccia di oligarchi e grandi criminali.

D’altra parte non si può nemmeno consentire al regime russo di rovesciare brutalmente la fragile (e imperfetta, ma comunque reale) democrazia ucraina, e di spazzare via l’architettura di sicurezza europea costruita con così tanta fatica negli ultimi trent’anni.

Che fare, dunque? Sono convinto che non possa esistere alcuna reale speranza di democrazia e pace durature per l’Europa orientale (cioè per la Bielorussia, ormai uno stato satellite della Russia; l’Ucraina, in guerra dal 2014; la Russia, in preda all’autoritarismo revanscista e a un’economia semi-fallimentare; la Moldavia, il più povero stato d’Europa, indebolito dalla ormai trentennale secessione della Transnistria, stato-fantoccio di Mosca) senza una sistemazione economica e commerciale complessiva di quella grande e travagliata regione, di cui solo oggi gli europei dell’ovest e i nordamericani sembrano scoprire le sofferenze e le lacerazioni.

Come è noto, coloro che prosperano e fanno affari tra loro tendono a non scannarsi (o almeno a farlo meno spesso), perché nessun imprenditore o commerciante vuole ammazzare il proprio cliente. Ed è altrettanto noto che gli scambi sono – tendenzialmente – un lievito per la crescita economica. E del resto se l’Europa occidentale, dal 1945 a oggi, ha conosciuto un’ininterrotta stagione di prosperità e pace all’interno dei suoi confini, è anche grazie all’integrazione economica e commerciale assicurata dai Trattati di Roma del 1957, a cominciare da quella tra Germania e Francia.

Per fermare la guerra in Ucraina, e gettare le fondamenta di una reale rinascita dell’Europa orientale, non si possono commettere di nuovo gli errori dei primi anni ’90; nei confronti del regime russo serve il bastone, ma anche la carota. Le diplomazie occidentali dovrebbero fare ogni sforzo per organizzare una Conferenza paneuropea per la pace e la prosperità dove riunire intorno a un tavolo l’Ucraina, la Russia, la Bielorussia, la Moldavia, la UE, gli Stati Uniti e il Regno Unito, nonché il Canada, la Turchia, la Svizzera, la Santa Sede, l’Islanda, la Georgia, l’Armenia, l’Azerbaigian e la Norvegia.

In cambio della pace, e del rispetto della sovranità dell’Ucraina e del suo percorso di integrazione nella UE, la Russia non riceverebbe solo la garanzia di neutralità da parte dell’Ucraina (ipotesi a cui ha recentemente accennato lo stesso presidente Zelens’kyj, e che si applica ad esempio all’Austria), ma otterrebbe di beneficiare (al pari dell’Ucraina, della Moldavia e della Bielorussia) di una grande iniziativa di rinascita dell’Europa orientale basata su tre pilastri:

un massiccio sostegno finanziario da parte di UE, UK, USA, Norvegia, Svizzera e Canada alla Russia per la riconversione ecologica delle sue industrie e delle sue  infrastrutture, secondo un piano elaborato da una commissione tecnica paritaria;

il rilancio del dialogo tra Russia e NATO;

il varo di una piattaforma denominata Eastern Dimension che, sulla falsariga della joint policy Nordic Dimension (attiva dal 1999 tra UE, Russia, Islanda e Norvegia), permetta una collaborazione reale e paritaria tra UE, Bielorussia, Russia e Ucraina in ambiti concreti come l’ambiente, l’istruzione, la cultura, i trasporti, la salute e il benessere della popolazione ecc. Ciò che può funzionare nella regione artica può funzionare anche nell’Europa orientale!

Nell’ambito della Conferenza sarebbe cruciale trovare una sistemazione, almeno parziale e/o graduale, per il Donbass e la Crimea, nonché una soluzione per la grave situazione politica in Bielorussia, per i problemi della Moldavia ecc. L’Ucraina dovrebbe beneficiare a sua volta di ingenti finanziamenti per la ricostruzione della sua economia secondo un piano elaborato da Bruxelles, da Kiev, dal FMI e dalla Banca Mondiale, in cambio della neutralità e di riforme costituzionali in grado di garantire i pieni diritti e la tutela di tutte le minoranze, sia etniche che linguistiche.

L’Italia e la Santa Sede dovrebbero essere tra i principali organizzatori della Conferenza, da tenersi simbolicamente a Roma. L’Italia è sempre stata uno degli interlocutori privilegiati di Mosca, e Mario Draghi è uno dei politici più stimati al Cremlino; la Santa Sede a sua volta ha grande esperienza nel trattare con il governo russo (si pensi solo all’opera di pontefici come Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo II), e papa Francesco gode, grazie al suo carisma e alla sua autorevolezza, di forte stima da parte del popolo ucraino (e dell’affetto dei quattro milioni di cattolici ucraini).

La Conferenza dovrebbe gettare le basi per quella Casa comune europea che un grande russo, e un grande europeo, quale Michail Gorbačëv, sognava. Sarebbe un nuovo inizio, dopo trenta anni di gravi errori e pericolosi egoismi da parte sia della Russia che dell’Occidente.

Questo post è tratto da un Commento uscito originariamente sul blog dell’Osservatorio Geopolitico e Geostorico del Nordest per l’Impresa e il Lavoro (OGGNIL).

TAG: Bielorussia, conferenza di pace, crisi ucraina, guerra ucraina, putin, russia, ucraina, Ue
CAT: diritti umani, Russia

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