Muccioli: “San Patrignano oggi è la negazione del luogo creato da mio padre”

22 Febbraio 2022

(L’intervista ad Andrea Muccioli si conclude con questa seconda parte, nella quale racconta gli anni della sua Direzione in comunità e la fine del rapporto con i Moratti che per lui ha significato la fine di San Patrignano e l’inizio di una sua nuova vita. Qui potete leggere la prima puntata).

Andrea sta a capo della comunità dal 1995 al 2011, fa evolvere l’idea di comunità costruita da suo padre, tanto da farla diventare un modello di studio per le università e per i governi all’estero, valorizza il patrimonio del luogo nel quale è costruita e soprattutto il lavoro dei ragazzi accolti, ma poi alla fine qualcosa non ha funzionato…

Durante gli anni della tua direzione a San Patrignano, in cosa ti senti di aver fatto meglio di tuo padre?

Penso di essere riuscito a fare evolvere la comunità, non solo per i miei meriti e le mie qualità, ma anche per l’opera di centinaia di persone che mi hanno aiutato a farlo. Il mio piccolo merito è stato quello di non aver sentito la necessità di paragonarmi a mio padre. E’ stato importante riuscire a vivere la libertà da questa figura, così ingombrante, se ci sono riuscito è perché mio padre mi ha insegnato ad essere me stesso. Non ho mai cercato di essere come lui, infatti ho fatto cose completamente diverse da quelle che probabilmente avrebbe fatto lui. Sono riuscito a dare alla comunità una grande visibilità all’estero, dove veniva vista come un luogo sì straordinario, ma allo stesso tempo misterioso ed oscuro, succedevano i miracoli, ma non si sapeva come, un luogo dove ogni tanto succedeva qualche casino. Nella mia gestione non è successo nessun casino, non ci sono stati suicidi, denunce, maltrattamenti, non sono stati denunciati sequestri, ispezioni della finanza, fatti giudiziari giuridicamente rilevanti. C’è stata un’evoluzione positiva fortissima, internazionale, di un’opera sociale che è stata un esempio nel mondo. Qui sono passati Primi Ministri, capi di Governo, Presidenti, la comunità è diventata un modello studiato dalle università e dai governi di tutto il mondo. Quando mio padre morì, nei primi mesi successivi, non sapevamo veramente se saremmo stati in grado di stare in piedi da soli, anzi io ero il primo ad essere convinto che non ce l’avremmo mai fatta, poi mi sono trovato nell’incomodo di essere il primo a dover confutare me stesso. Ero talmente convinto del bene che si faceva in quel luogo, che ho aperto le porte e ho lasciato che la gente venisse a vedere, non i giornalisti, non i politici, ma la gente comune. Ho avuto modo di organizzare degli eventi dove non necessariamente si parlasse di drammi umani e di droga, ma si desse alle persone l’opportunità di venire a vedere, parlando di cavalli, di cibo, facendo conferenze, organizzando stagioni musicali, con l’orchestra sinfonica Toscanini dell’Emilia Romagna, insomma cercando di creare occasioni per un incontro con il mondo. Questa trasparenza è stata una mossa sicuramente vincente. San Patrignano ai tempi di mio padre era un luogo indefinibile dal punto di vista geografico. Le autorità locali timidamente hanno iniziato a vincere le proprie resistenze e San Patrignano piano piano è diventato quel bene collettivo che apparteneva a tutti. Quando ho fatto la mia scelta di vita, ero un contrattista internazionale alla SNAM, ho lasciato l’incarico per iniziare a costruire questo embrione di attività commerciale che serviva a San Patrignano, per portare a conoscenza del mondo tutte le cose belle che i ragazzi erano capaci di fare. Producevamo vini e bisognava tentare di venderli, cosa non facile, perché era difficile trovare canali di vendita. Ho studiato le etichette, ho contattato importanti enologi cercando di valorizzare questo patrimonio. Quando chiesi ad un distributore locale di occuparsi della vendita, dopo alcuni test tornarono dicendomi che i vini non erano male, ma il problema era che non li voleva nessuno, perché la gente, appannata da tutte le vicende giudiziarie della comunità, l’AIDS e tutto il resto, non voleva comperare i prodotti fatti dai drogati. L’unico modo era togliere il nome San Patrignano dall’etichetta, quindi per due anni presi la dolorosa decisione di sostituire il marchio con Terre del Cedro. Così per due anni non ho dimostrato quanto fossero bravi i ragazzi, ma finalmente nel ’97, mio padre era già morto, ritornammo ad inserire il nome di San Patrignano sulle etichette e 3 anni dopo AVI il San Giovese dedicato a mio padre è stato il primo San Giovese in Romagna ad avere il riconoscimento dei tre bicchieri del gambero rosso. Questo è stato il frutto di quel percorso di trasparenza, lento e difficile.

Andrea Muccioli

Comprendo che avrai già risposto tantissime volte a questa domanda, ma da lettore e da spettatore mi chiedo come possa interrompersi un rapporto durato circa 40 anni, con la famiglia Moratti, fondato sulla condivisione di un alto valore, che non può essere scalfito da questioni economiche.

Ho cercato di far salvo il principio per il quale non esisteva più un rapporto di fiducia. Lo stesso rapporto di fiducia andrebbe misurato anche in forza dei risultati raggiunti: il 92% di fattore di ritenzione in trattamento è un dato che ha quasi dell’irreale, perché il più alto dato di questo tipo nel resto del mondo si attesta sotto il 30%. Vuol dire che 92 ragazzi su cento, dopo un anno, erano ancora in comunità. Anche io ho dato schiaffoni, ho chiuso qualcuno in una stanza se era per il suo bene, ma senza servirmi di catene, di materassi sporchi. Stanze pulitissime, dove il ragazzo veniva seguito da persone competenti e affidabili, che non avrebbero mai permesso il degenerare della situazione con maltrattamenti o cose del genere. Monitorati 24 ore su 24 e impossibilitati a farsi del male. In questo modo posso dire di aver salvato molte vite e questo mi riempie di orgoglio. Quando decidi di rinchiudere un ragazzo lo fai con la responsabilità dell’educatore, sapendo benissimo che metterai a repentaglio non la sua vita, ma la tua, la tua fedina penale, la tua libertà personale, la tua credibilità. Compi queste azioni con un senso di responsabilità altissimo, consapevole dei rischi a cui potresti andare incontro. Su questo presupposto Gianmarco Moratti mi chiese di rifondare lo stesso patto che a sua volta aveva fatto con mio padre, chiesi però a lui di restituire il miliardo di vecchie lire che lui diede a mio padre per me. Come sai, è scritto bene nel libro, mio padre si spogliò di ogni bene materiale mettendo tutto a disposizione della comunità e sentiva però la necessità di lasciare qualcosa a me e mio fratello, non fosse altro per permetterci di prendere liberamente le decisioni per la nostra vita. Io scelsi di restare e di rispettare il ruolo di Gianmarco Moratti, che era quello di garantire le risorse finanziarie, senza mai intromettersi nella gestione. Per la sacralità di questo patto avevo la necessità che non ci fossero implicazioni economiche tra me e lui, quindi era mia ferma intenzione restituire il miliardo di lire. Queste nel 1996 erano le mie condizioni. Mio fratello fece lo stesso. E lui lo sapeva benissimo, anzi credo che Gianmarco non abbia mai incontrato una persona più onestà di me e meno interessata ai soldi. Per molti anni il nostro rapporto è stato leale, profondamente ancorato a sentimenti di affetto, fiducia, stima. Il patto non è stato mai neppure discusso, perchè non ce n’era alcun bisogno. Tutto era estremamente chiaro e sereno, tra noi. Poi qualcosa si è rotto. Dopo l’esperienza alla RAI e successivamente come Ministro dell’Istruzione, Letizia ha cominciato ad avere maggiori ruoli di potere e visibilità pubblica. Mio padre aveva per anni cercato di mettere in guardia Gianmarco da questa escalation della moglie e più di una volta l’ho sentito redarguire direttamente anche lei su questa sorta di ambizione, che ne esponeva i lati del carattere più clinici e algidi, quasi offuscandone l’equilibrio. Purtroppo, invecchiando, Gianmarco è venuto meno a questo ruolo equilibratore e, anzi, ha cominciato a potenziare nella moglie queste ambizioni. Questo ha portato a mio avviso a grandi scompensi, tanto all’interno della loro famiglia quanto nel nostro rapporto. Io ero stato messo da loro, per anni su una sorta di piedistallo, come una specie di consigliere, saggio e costantemente ispirato, anche se io non mi sentivo certo così e cercavo di sottrarmi come potevo a questo ruolo. In ogni caso, visto il profondo affetto che mi legava a loro e la considerazione del loro ruolo, così delicato e importante nell’economia della comunità, di fronte a certe scelte, che mi sembravano non condivisibili, mi sono sentito in dovere di criticarne la fondatezza e metterli in guardia. Anzichè apprezzare lo spirito di sincera amicizia, con il quale esprimevo le mie critiche, lo hanno vissuto in modo molto negativo, e questo ha cominciato a creare una distanza, una crepa nel nostro rapporto. Gianmarco poi stava diventando anziano, e il mio ruolo mi imponeva di cercare di assicurare stabilità finanziaria alla comunità, la certezza che, qualunque cosa accadesse, a San Patrignano fossero assicurate le risorse per continuare la propria missione.  Chiesi che venisse fatto un fondo fiduciario, svincolato dal controllo della comunità e dai suoi responsabili, a partire da me, destinato a provvedere al fabbisogno economico e finanziario della comunità, per gli anni a venire, in modo da evitare le consuete ed episodiche richieste di finanziamento necessarie alla bisogna. Notai una certa evasività nelle risposte. Non me l’aspettavo, ma continuai a chiedere, per almeno due anni, fino a sentirmi un mendicante, anche se non era certo per me stesso che chiedevo. Quando finalmente mi viene proposta come soluzione il possibile futuro interessamento del figlio Gabriele, detto Batman, come persona che avrebbe garantito il futuro della comunità, a mio avviso non la persona più indicata, comincio a capire che c’è davvero qualcosa che non va. Mi pervade un senso di timore e di angoscia per il futuro. Di lì a poco prendo atto che lo scopo dei Moratti è prendere il controllo della comunità. Per questo è in atto una sorta di complotto-ammutinamento interno. Solo che la mia scoperta è arrivata prima del previsto, così da impedire che essi si garantissero quella che, in una scalata societaria, sarebbe stata la maggioranza del consiglio di amministrazione: nel nostro caso è solo l’assemblea dei volontari e responsabili della comunità. Hanno solo dieci, dodici persone dalla loro, guarda caso quasi tutti milanesi. Io dalla mia ne ho più di cento. Ma da lì inizia una dolorosa, esplosiva guerra di logoramento, in cui non posso vincere. Intanto perché loro si limitano a restare nel loro feudo milanese con il loro potere e soprattutto usano, ad arte, la leva del denaro, diminuendo i finanziamenti, fino a far letteralmente boccheggiare la comunità, la quale sta letteralmente rischiando di autodistruggersi, con i fedelissimi a caccia dei “complottisti” e, soprattutto, i ragazzi presi in mezzo a questa specie di tritacarne. Io mi arrabatto a sedare gli animi, a cercare una mediazione, poi mi rendo conto che l’unica cosa che posso fare, se voglio dare alla comunità una possibilità di sopravvivere, è lasciarla. Andarmene per sempre da quella casa, che i miei genitori avevano aperto a tutti. Purtroppo questo sacrificio è stato vano. Appena me ne sono andato è cominciata una sorta di distruzione scientifica della mia figura, sia all’interno sia all’esterno della comunità. E dietro le mie spalle. Senza dichiarazioni pubbliche alle quali avrei potuto rispondere. Ma in quel periodo mi è capitato decine di volte di vivere episodi dolorosi e molto spiacevoli. Ho lasciato la comunità, dopo quasi vent’anni di lavoro, con 78.000 euro, senza un impiego e con una moglie e tre figli piccoli, sostenevo colloqui con amici imprenditori, con i quali avevo rapporti di amicizia e collaborazione, anche da molti anni. Parlo di imprenditori anche molto in vista del nostro Paese. Sulle prime ricevevo solidarietà, rassicurazioni, entusiastiche proposte di collaborazione. Regolarmente, dopo alcuni giorni, l’imprenditore si faceva di nebbia, ogni proposta cadeva nel vuoto e io nel girone degli scomodi e degli indesiderati. Mi era stato creato il vuoto intorno da chi aveva il potere di farlo. Una sorta di “o con noi o contro di noi.” E mettersi contro non era certo un’opzione accettabile per nessuno. Per me oggi San Patrignano è un qualcosa di poco comprensibile, a partire dal nome che era strettamente legato alla mia famiglia, ancora oggi mi chiamano per chiedere come si fa ad entrare lì. Nell’immaginario comune San Patrignano è la famiglia Muccioli. Ma oggi lì hanno addirittura cancellato il nostro ricordo, staccando prima tutte le fotografie dei miei 18 anni di gestione, e più recentemente anche quelle di mio padre e di mia madre. A me sembra che quel luogo sia stato trasformato in un gigantesco palcoscenico, una realtà finta, fatta forse solo per l’immagine della famiglia Moratti, ma senza fare i conti con il fatto che i ragazzi in comunità sono abituati a indossare maschere, il loro è un mondo fatto di maschere. Quindi non li puoi aiutare a togliersi le loro maschere, se chi educa e dirige per primo non è in grado magari di togliere le sue e creare un ambiente vero. San Patrignano oggi è, a mio avviso, un non luogo, dove tutti paiono recitare una parte, dove tutto è molto determinato prevalentemente dai soldi, dove i ragazzi sono sempre meno perchè non entra più nessuno e mi dicono che quelli che escono hanno un tasso di ricaduta altissima. La negazione di tutto quello che aveva creato mio padre.

TAG:
CAT: diritti umani, terzo settore

Un commento

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  1. saverio 2 anni fa

    Mah…, a me sembra che il Sig. Andrea “rosichi” un po’ e trovo ingeneroso attribuire pregiudizio al positivo funzionamento della struttura oltre l’era Muccioli. Con ogni comprensione legata al disappunto per le sue vicissitudini personali, mi sembra puerile presumere che oltre l’illuminata gestione familiare esistano solo irrimediabili maschere. Che sia una “maschera” anche questa visione?

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