Qamil Hyraj e il concetto della non esistenza

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6 Novembre 2014

Qamil Hyraj aveva 23 anni, faceva il pastore. L’hanno trovato domenica 6 aprile 2014 disteso in mezzo alle campagne di Porto Cesareo, in provincia di Lecce, con un proiettile conficcato nel cranio. Un colpo solo, sparato a distanza ravvicinata. A dirlo è stata l’autopsia sul corpo del giovane effettuata qualche giorno dopo dal medico legale su autorizzazione del pm: «l’ogiva –sentenziò il referto medico- è entrata dalla fronte e si è conficcata nella regione occipitale, deformandosi».

Durante questi sette mesi le indagini coordinate dal pubblico ministero Giuseppe Capoccia hanno pian piano stretto il cerchio tentando di tratteggiare i contorni di quello che sembra essere un racconto dell’orrore. Qamil lavorava come pastore (e come panettiere) alle dipendenze di un’azienda agricola della zona gestita dalla famiglia Roi, padre Angelo e figlio Giuseppe, trentatreenne. Di ieri la notizia dell’arresto del giovane imprenditore come unico imputato per la morte del ragazzo. Da quel che si evince dalla ricostruzione della Procura, quella mattina di aprile Giuseppe Roi avrebbe esploso un colpo dalla sua calibro 22 puntando un frigorifero a poca distanza dal pastore, cosa che faceva spesso per “testare la sua agilità”.

Capisco che di fronte a questa ricostruzione qualsiasi essere umano possa sentirsi, chi per pochi secondi e chi per una giornata intera, spiazzato. Spiazzato perché la vicenda è da scenario post-atomico o da Medioevo, ossia talmente fuori dai connotati spazio-temporali da apparire di un’altra epoca, come se appartenesse a un altro mondo, a un altro ordine di cose. Invece, invece il mondo è proprio questo. Quello delle campagne virali al gusto di banana e di “stranieri” che, a dispetto di dati senza verifica, ma inconfutabili e diffusi, provocano incidenti mortali tentando di decimare la popolazione italiana, schiaffeggiano consiglieri, approcciano ragazze autoctone per strada. E ci sarebbe da riflettere soprattutto sulle volte in cui non facciamo caso all’ordine delle cose nel mondo, che passa anche per l’ordine delle cose su una prima pagina, su una scaletta di un tiggì, su un lancio di una qualsiasi edizione locale. Crediamo al caso e ci affidiamo ad esso, un po’ come faceva il buon Roi quando mirava a pochi centimetri dal “suo” pastore, animale domestico, giocattolo preferito.

In questa miserabile vicenda, laddove la semantica di miserabile credo abbracci ogni sfaccettatura della stessa, raccontiamo anche di come Angelo Roi, padre dell’esplosivo Giuseppe, abbia inizialmente tentato con ogni mezzo di coprire l’accaduto. L’uomo aveva raccontato ai Carabinieri l’inverosimile versione di un tentativo di rapina di alcuni agnelli, tentativo ovviamente andato male, cercando di inserire l’evento in un contesto generico di criminalità organizzata. Questo è un passaggio importante, perché il gioco razzista più subdolo inizia qui: riuscire a cavalcare la logica dello stereotipo alimentando il pregiudizio. Albanese? Criminalità organizzata. Prima ancora di riuscire a chiarire, appare già tutto sgombro di nubi, e la colpa non è imputabile solo al padre dell’arrestato: «Le indagini si concentrano proprio sul mondo dei pastori anche se non trascurano la consuetudine del ragazzo di effettuare frequenti viaggi nella terra d’origine», scrive un quotidiano a pochi giorni dal ritrovamento. La “terra d’origine” che giustifica e spiega tutto, che viene usata come dettaglio per inquadrare psicologicamente la vittima, prima ancora di ritenerla vittima. Qamil in Albania aveva la famiglia, e può capitare che un ragazzo di 23 anni possa tornare ogni tanto a casa. Lo fanno anche i cervelli in fuga quando rientrano dal Canada, dagli Usa, d’altronde. Il problema però è l’Albania, non è Qamil, perché Qamil semplicemente non esiste. O meglio, ha trovato la sua esistenza nel momento in cui un gioco sadico ha voluto strappargli la sua non-esistenza.

 

Strana ventura, quella del conquistare la propria dignità soltanto da morti. Qamil ora è vivo più che mai, pur essendo un cadavere. Prima era un morto vivente, una non-esistenza. Un gioco perverso in cui vita e morte nei loro concetti più assoluti si rincorrono, si mischiano, dove l’una si nasconde nel cono d’ombra dell’altra. Una non-esistenza semplice e lineare quella di Qamil, scoperta dagli stessi investigatori nel momento in cui sono andati a scavare nel passato del ragazzo: nessun legame con criminalità organizzata o con personaggi noti alle forze dell’ordine, tante amicizie con pastori, anche connazionali, e rapporto lavorativo con la famiglia Roi, «a cui –come riferiscono gli stessi Carabinieri- si era affidato con affetto e disponibilità».

Un affetto e una disponibilità pagata con il ruolo del bersaglio mobile e quel datore di lavoro-padroncino così appassionato di armi – fucili, pistole, persino un caricatore kalashnikov- che gli diceva “ti spaventi sempre” quando mirava volutamente oggetti improvvisati, scelti secondo un unico parametro: la poca distanza dal ragazzo.

Difficile immaginare di mettere in conto che il tuo datore di lavoro oltre a pagarti (male), ogni tanto ti spari addosso per testare la tua “bravura”. Difficile immaginare di poter restare a lavorare in quel posto, nonostante questo contesto un po’ western. Difficile immaginarlo per un’esistenza, non per una non-esistenza, perché spesso non esistere significa non scegliere, non fermarsi a rifiatare, non avere alternative, non poter immaginare diversamente.

Dunque si vive da morti e si inizia a esistere solo dopo la morte, questo è il destino. Se ti va bene. Perché anche alla luce dei fatti per certa stampa locale puoi comunque rimanere un “Pastore albanese assassinato –così scrive Il Gallo, quotidiano online salentino – in un gioco finito in tragedia”, e non importa se in questo orrore si fatichi a trovare il concetto di gioco e si fatichi  ancor di più a capire che questo ragazzo sia stato ucciso da qualcuno, magari italiano, imprenditore e facoltoso virgulto dell’Italia che produce.

In fondo, se Giuseppe Roi riteneva opportuno sparare a un suo simile per divertimento, era perché evidentemente non lo considerava un suo simile: « lo vedeva a poca distanza e quando ha sparato sapeva che avrebbe potuto colpirlo –spiega il procuratore di Lecce Cataldo – per questo il reato che gli viene contestato è omicidio volontario e non colposo, perché l’omicidio non è stato un fatto fortuito ma Roi sapeva che poteva accadere». Questo perché in fondo mettere fine a una non-esistenza non fa rumore, e se poi iniziasse a far troppo rumore basta una rapina inventata, un riferimento al paese d’origine, una posizione confinata in cronaca locale, perché l’ordine delle cose rimane sempre quello lì, ed è molto difficile poterlo cambiare. Al limite si può solo fare in modo che questa esistenza postuma possa riaffiorare da qualche anfratto, respirare, e dire “ehi ragazzi, ci sono anche io, e ci sono sempre stato. Ero solo troppo incasinato per poter rendermene conto”.

TAG:
CAT: discriminazioni, Integrazione, Media

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