Le parole sono importanti

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22 Luglio 2022

Vera Gheno (1975) è un’accademica, sociolinguista e traduttrice italo-ungherese. Si occupa prevalentemente di comunicazione digitale, e nei suoi numerosi interventi sulla stampa e nei seguitissimi social sostiene l’inclusività del linguaggio scritto e orale, contro ogni discriminazione di genere o etnia. In quest’ultima pubblicazione, Chiamami così (che riporta come esplicativo sottotitolo Normalità, diversità e tutte le parole nel mezzo), muove dalla considerazione che “Una realtà in trasformazione richiede pensieri e parole mutevoli, che si aggiornino in base alle esigenze delle varie componenti della società”: assodato quindi che il mondo in cui agiamo si sta trasformando continuamente e velocemente, soprattutto per impulso della globalizzazione e dell’avvento dei nuovi media, ne deriva che anche il nostro modo di esprimerci debba adeguarsi alla sua evoluzione.

In cinque brevi e stimolanti capitoli, Vera Gheno sottolinea la necessità non procrastinabile di riflettere, soprattutto nell’ambito della formazione – scolastica e non –, sulla rappresentatività sociale e linguistica, relativizzando punti di vista a lungo considerati come universali e riconsiderando in particolare i concetti di diversità e normalità. Quali e quante sono le caratteristiche peculiari che riteniamo ci differenzino all’interno di una comunità? Tra le altre, senz’altro il sesso biologico e l’orientamento sessuale, l’etnia e la provenienza geografica, la religione, l’istruzione, la disabilità, la neuro- diversità, l’età, il corpo, l’indole, le abitudini culturali, le possibilità economiche. Da ognuna di queste nasce una possibile discriminazione, classificabile con un nome: misoginia, omofobia, body-shaming, ageismo, xenofobia, ecc.

“Discriminare significa, letteralmente, operare una distinzione: va da sé che essa può avere un valore neutro, oppure produrre una differenza che va a discapito di una categoria, sancendo chi è «dentro» e chi è «fuori» da una norma”. Se consideriamo la diversità come uno scarto dalla normalità, e non nel senso più appropriato di varietà arricchente, finiamo per imporre artificialmente la nostra identità maggioritaria come modello assoluto a tutte le minoranze, rifiutando loro il diritto di autorappresentarsi. Viviamo infatti in una società normocentrica, che impone i suoi modelli canonici di bellezza fisica e prestigio economico-sociale, da raggiungere a tutti i costi per poter rientrare nell’agognata cerchia dei cosiddetti “normali”. Viviamo inoltre in una società androcentrica, in cui ogni tipo di potere è stato per millenni gestito da maschi, costringendo le donne a ruoli subalterni e ghettizzanti, continuamente ribaditi dalle parole che si utilizzano per abitudine, pigrizia, superficialità (“Ho sempre detto così!”).

Per cambiare questo stato di cose, per trasformare la mentalità pigramente imperante, dobbiamo agire in primo luogo mutando le nostre ossidate abitudini linguistiche. La maggior parte delle persone, tradizionalmente ostile alle novità, si trova in imbarazzo o manifesta fastidio verso i nomi femminili professionali: dire avvocata, sindaca, direttora, ministra, questora, crea disagio, mentre non provoca nessuno sconcerto dire infermiera, maestra, cuoca. Forse perché alcuni ruoli apicali sono appannaggio quasi esclusivamente maschile? Per favorire e incoraggiare la presenza sociale della donna in ogni campo lavorativo, si dovrebbe evitare di usare il maschile sovraesteso quando ci si rivolge a una moltitudine mista: se cambia la composizione della società, la lingua si deve evolvere di conseguenza. La linguistica, come l’architettura, la medicina e altre arti e discipline sono costruite secondo un’ottica assolutamente patriarcale, che mira a tenere divise e in stato di conflittualità tra loro le minoranze, in modo da poterle manovrare con maggiore facilità.

Quali strategie attuare per gestire correttamente le differenze? Parlare di inclusività è fuorviante perché indica un movimento non reciproco e sbilanciato tra chi include e chi viene incluso: meglio sarebbe agire con l’obiettivo di una convivenza delle differenze. “La diversità non deve essere ignorata ma celebrata, e nominata bene. Nominare in maniera corretta delle compagini della società che sono state fino a tempi recenti sottorappresentate linguisticamente fa sì che quelle minoranze acquisiscano una maggiore concretezza e diventino abituali agli occhi degli altri individui, ma anche ai propri stessi occhi…  Noi siamo tutti diversi, non tutti uguali, ed è giusto lasciare che la complessità della realtà modifichi la lingua”.

 

VERA GHENO, CHIAMAMI COSÌ. NORMALITÀ, DIVERSITÀ E TUTTE LE PAROLE NEL MEZZO – IL MARGINE, TRENTO 2022, p. 95.

Presentazione di Fabrizio Acanfora. Illustrazioni di Paolo Dalponte.

 

 

 

 

 

 

 

 

TAG:
CAT: discriminazioni, Letteratura

Un commento

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  1. dino-villatico 2 anni fa

    Convivenza delle differenze! Questa sarebbe la vera democrazia. Ma siamo maturi, almeno in Italia, per attuarla?

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