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Diritti

Non basta dirsi amico di Israele

di Alessandro Paris
1 Novembre 2019

Quando ho letto dell’astensione del centro destra alla proposta di Commissione parlamentare contro il razzismo e l’antisemitismo voluta dalla senatrice a vita Liliana Segre, ho pensato che finalmente fosse stato chiaro l’equivoco di fondo del pensare che combattere l’antisemitismo si riduca al dirsi amico di Israele (che poi di fatto in questo caso significa amico della destra israeliana).
Ma non voglio qui parlare di questo delicato argomento, relativo, ad esempio, al fatto che in Israele, che è uno stato democratico c’è un pluralismo politico che sfugge alla percezione di chi ragiona secondo una logica di “alleanza dei sovranismi” (che a ben vedere è un ossimoro).
Voglio invece parlare della posizione di chi si è giustificato l’altro ieri dicendo appunto: “nessuno può chiamarmi antisemita, perché io sono amico di Israele” intendendo che questo significhi tout court combattere attivamente qualunque forma di antisemitismo. Ci sono ebrei anche fuori da Israele, non lo sa? Inoltre, mi ricorda tanto gli omofobi che dicono «non odio i gay, ho un amico gay». Si tratta del meccanismo psicologico della Verneinung (negazione).
L’antisemitismo è costituito da stereotipi e pregiudizi, che possono applicarsi ad altre categorie in genere minoritarie in una società, per far cadere su di esse la presunte “colpe” di ciò che in quella società non funziona o si percepisce come male. Si tratta del ben noto meccanismo del capro espiatorio.
A ben vedere è proprio questo dispositivo eterofobico – congiunto al problema crescente dell’ hate speech on line – ad essere oggetto di attenzione della commissione parlamentare proposta da Liliana Segre ed altri.
Ben si comprende dunque l’atteggiamento di quei parlamentari leghisti che, avendo subodorato l’oggetto specifico di questa commissione, si sono rifiutati di appoggiarla. (Meno si comprende la scelta di Forza Italia, che si è sempre proclamata liberale, ma i tempi e i rapporti di forza sono cambiati evidentemente).
Il fatto di dirsi “amici di Israele” non è una giustificazione. Chi è amico di Israele è molto sensibile a combattere l’antisemitismo fuori da Israele. L’antisemitismo essenza, ovvero l’odio del diverso, di cui “l’ebreo” è la sineddoche. Ma il diverso potrebbe essere, ed oggi di fatto è, anche il rom, l’omosessuale, l’extracomunitario, l’islamico, il curdo, il diversamente abile, l’asperger, . etc. Inoltre c’è il discorso del complottismo, molto presente e tragicamente crescente in numerosi discorsi di odio on line e non solo: l’ideologia del radicalismo identitario che vede l”ebreo” come sintomo di sradicamento globalista e capitalista, e che addita, ad esempio, a causa di tutti i mali l’Europa, Il gruppo Bildenberg, Soros, il Piano Kalergi, e via via sino ai protocolli dei Savi di Sion.
E poi vi è, last but not least, la discriminazione di genere verso la donna.
E’ ben vero che c’è una specificità maggiore per quanto attiene all’antisemitismo: vi si aggiunge un rapporto molto profondo e irrisolto della propria presunta “identità cristiana” (esibita come dispositivo immunitario, non come pratica di amore del prossimo secondo gli insegnamenti di Gesù, ribaditi da papa Francesco). Ecco perché di solito le destre sovraniste nostrane sono contigue a quelle posizioni tradizionaliste e preconciliari che stigmatizzano il magistero di Francesco considerandolo “eretico”. Basta dare un occhiata in giro, sui social e sui media tradizionali, per trovarne conferma.

antisemitismo hate speech liliana segre
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