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Grandi imprese

Scudo penoso

di Davide Giacalone
6 Novembre 2019

Sotto lo scudo penale c’è uno stato penoso. E la cosa non riguarda solo l’Ilva. Questa disgraziata faccenda almeno aiuti a capire una parte consistente dei nostri problemi collettivi.
Emilio Riva, guida dell’Ilva dopo la privatizzazione, è morto da uomo non libero. Arrestato a 88 anni e privato dei suoi beni non in base a una sentenza, ma in via preliminare (luglio 2012). Il presupposto d’accusa è che l’Ilva avesse diffuso morte tutt’intorno. L’acciaio prodotto fu sequestrato, quale corpo del reato. Presupposto non (ancora?) dimostrato nel solo modo accettabile: una sentenza che lo attesti in via definitiva. Morto lui i successori non vollero dar battaglia, preferendo salvare cospicui capitali, anche illegalmente detenuti all’estero. L’Ilva divenne dei commissari.
Il primo fu un prefetto, che non fece a tempo ad arrivare che già disponeva di un avviso di garanzia. Se ne andò. Ai successori, nominati nel numero di tre, fu messo a disposizione (2015) uno scudo penale, di cui ancora si parla. Perché? Perché qualsiasi cosa avessero fatto sarebbero potuti essere accusati, come accadde al predecessore. E questo è il punto più importante: se si determina una cosa di quel genere è evidente che a non funzionare sono le leggi che regolano la faccenda e se la minaccia penale è così terribile non discende dall’avere violato la legge, ma dal fatto che potrai dimostrarlo solo dopo anni, sempre che non crepi prima. Lo scudo penale fu posto a difesa dei commissari. Il resto degli italiani, però, rimanevano dentro lo stesso pazzotico sistema, ma senza scudo alcuno. Questa è la questione più importante.
Aperto un negoziato l’Ilva fu poi venduta. Gli acquirenti si impegnavano ad investire e risanare (la Commissione europea considerava l’Ilva, gestione Riva, il miglior esempio di investimento per il risanamento). Però si sarebbero trovati nella medesima condizione del loro predecessore privato e dei commissari che gli erano succeduti, sicché passibili di finire sotto eterno processo per il solo fatto di far funzionare l’acciaieria. Per questa ragione il contratto fu firmato vigente la legge che scudava anche loro.
Qualcuno dubitò, noi fra questi: gli acquirenti erano stati concorrenti dell’Ilva e di acciaio, per ora, se ne produce troppo, non è che poi chiudono Taranto? No, si sosteneva, perché il contratto prevede l’impegno ad investire più di 4 miliardi. Vero. Tutto stava a che non ci fossero scappatoie. Le ha incredibilmente create prima il governo Conte 1, presente e corresponsabile la Lega, che oggi strepita, cancellando lo scudo, poi la maggioranza del Conte 2, perché dopo la reintroduzione, mediante decreto, dello scudo s’è industriata a sopprimerlo in Parlamento, con il voto di quelli che oggi strepitano: Pd, Leu e Iv. Discorso a parte per i pentastellati, presenti e consenzienti nel togliere lo scudo, rimettere lo scudo e ritogliere lo scudo: sono asini demagoghi che non sanno come giustificare il fare l’opposto di quel che dicono.
Tre conclusioni: 1. il Paese che ha bisogno dello scudo penale per potere rispettare i patti con il governo è da matti, il governo che toglie lo scudo e poi protesta per il non rispetto dei patti è da incapaci; 2. questa situazione si riproduce in moltissimi settori e casi, descrivendo un Paese in cui non si è più in grado di sapere cosa è lecito e cosa no, mentre la giustizia agisce nell’incertezza del diritto, il tutto senza fare la sola cosa necessaria: riscrivere le regole del mercato e dell’ambiente, oltre a quelle penali e di procedura; 3. la politica è popolata da demagoghi pronti a dire qualsiasi cosa e da codardi che una volta visto il successo dei demagoghi non sanno far altro che accodarsi.
Nel caso taluno pensasse che il disastro sia solo a Taranto.

Davide Giacalone
www.davidegiacalone.it
@DavideGiac

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