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Innovazione

Lavorare stanca

di Alfio Squillaci
4 Febbraio 2015

Ciò che si  fa fatica a comprendere oggi  è che la rivoluzione tecnologica in atto (ITC – Information and Communication Technology) distrugge posti di lavoro e per la prima volta dalla rivoluzione industriale inglese  di fine ‘700 (il prototipo delle rivoluzioni industriali) non li sostituisce in egual numero con altri tipi di lavoro totalmente nuovi: dieci posti persi in banca (di sportellisti) a malapena con un programmatore informatico.  Vicino casa mia la sede della tipografia del “Corriere della sera” è già sovradimensionata nell’epoca dei tablet. I giornalai saranno la prossima vittima, dopo i tipografi  e i boscaioli, per via della riduzione dell’uso della carta.  Non ci sono governi che possano compiere alcun miracolo e i posti di lavoro non si creano per decreto legge  o per stimoli di sorta a questo o a quel comparto produttivo. La rivoluzione digitale sta sconvolgendo il mondo; in più la finanziarizzazione dell’economia sta divaricando ancor più la forbice tra un piccolissimo numero di ricchi sempre più ricchi e il resto della popolazione sempre più povera, con l’aggravante della proletarizzazione dei ceti medi. Thomas Picketty ce l’ha spiegato come meglio non si poteva. Aggiungete la globalizzazione che sposta le produzioni nel terzo mondo e porta il terzo mondo qui.  Uno scenario da incubo.

A ciò, per essere onesti, occorrerebbe aggiungere la diffusione del  “modello signorile”, ossia la discesa dai rami più alti della società verso quello più bassi, di stili di vita e consumi alti e fuga dagli impieghi manuali, faticosi o ripetitivi.  Il mercato  dell’edilizia parla  albanese o rumeno.  Il mio mercatino rionale del venerdì, su al Nord,  parla ormai arabo non più bergamasco o bresciano. E in quello del Sud parla cinese.  Non ci sono giovani  italiani disposti ad alzarsi all’alba e andare ai mercati generali e a ritornarne  prima delle sette per vendere zucchine sul banchetto. I nostri giovani fanno volentieri i baristi sì, ma ad Amsterdam (visti con gli occhi, dappertutto), giammai al Giambellino o in via Padova (dove tutti i bar o sono in mano ai cinesi o agli arabi). Nelle fonderie bresciane ci sono solo senegalesi, e i bergamini  per le stalle della Bassa  li prendono direttamente nel Punjab tra i sikh.

Chi scrive  ha avuto una socializzazione difficile (si dice così in sociologia, e io l’ho patita intus et in cute), diciamo che ho fatto una miriade di lavori manuali  (veri, pesanti, ripetitivi, sfiancanti) per mantenermi agli studi, in un’epoca, la fine degli anni ’70, che in questi giorni di “disoccupazione giovanile” al 40 % viene di solito richiamata a termine di paragone come picco di alta disoccupazione mai raggiunto nella storia recente. Invero, alla fine degli anni ’70 era  proprio così, parlo per esperienza personale, perché giravo, dopo il lavoro manuale,  per le case delle borgate di una Sicilia per tutto il giorno arrostita dal sole africano, esortando i giovani a iscriversi agli uffici di collocamento  in virtù della legge 285/77 che ci sembrava allora, per chi faceva “lavoro politico”, la panacea.  Poveri noi! Poveri illusi! Devo aggiungere per amore di verità  che  anche nella Sicilia più desolata,  solo chi aveva il vuoto parentale e sociale alle spalle ricorreva al lavoro manuale. I miei amici di borgata, chiamali scemi,  preferivano vivere con le pensioncine  delle nonne, in attesa che il politico Tal de’ Tali li sistemasse: fatto che puntualmente si avverava anche dopo i 30 anni, epoca in cui definirsi “giovani” è ridicolo. E fatto che paghiamo tutti, perché i posti pubblici in Sicilia sono uno scandalo che urla vendetta al cielo.  Perché tutto questo? Perché la fatica fisica è ancora oggi un castigo biblico, perché si avvicina, anche dal punto di vista iconografico, alla schiavitù tardo-antica, o semplicemente perché lavorare stanca.

disoccupazione giovanile Lavoro
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