Una nuova idea di sicurezza

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29 Aprile 2019

Tra poco più di un mese, nella mia città si eleggerà il nuovo sindaco.

I due candidati principali – cioè il primo cittadino uscente, di area Pd, e lo sfidante della Lega – hanno scelto di duellare sul tema del momento: la sicurezza,  che va di moda nel dibattito politico nazionale e che interessa molto ai miei concittadini, una popolazione urbana sempre più vecchia e solitaria (un residente su quattro ha più di 65 anni, quasi uno su due vive solo).

L’aspirante sindaco leghista ha posto come caposaldo del suo programma l’istituzione delle zone rosse e un maggiore controllo del territorio; la giunta in carica ha risposto rivendicando l’abbondante applicazione del Daspo urbano e promettendo più agenti di polizia locale e più telecamere di sorveglianza.

I due candidati dimostrano così di affrontare il problema della sicurezza solo in termini di deterrenza e di repressione: pattuglie e telesorveglianza servono infatti soprattutto a scoraggiare i criminali, mentre arresti e allontanamenti intervengono “a valle” dei reati, per punirne gli autori; nel dibattito non emerge invece il tema della prevenzione, cioè di come intervenire su quelle condizioni che favoriscono l’insorgere dell’illegalità.

La riduzione della sicurezza a pura questione di ordine pubblico è una concezione molto tradizionale e ormai superata: paradossalmente, il superamento è avvenuto proprio con il decreto 14/2017 (chiamato decreto Minniti, dal nome del suo autore) che ha istituito il Daspo urbano e le zone rosse.

Il testo del decreto definisce infatti la sicurezza urbana come

“il bene pubblico che afferisce alla vivibilità e al decoro delle città, da perseguire anche attraverso interventi di riqualificazione, anche urbanistica, sociale e culturale, e recupero delle aree o dei siti degradati, l’eliminazione dei fattori di marginalità e di esclusione sociale, la prevenzione della criminalità, in particolare di tipo predatorio, la promozione della cultura del rispetto della legalità e l’affermazione di più elevati livelli di coesione sociale e convivenza civile.”

L’accezione è dunque molto più ampia, poiché comprende i concetti di vivibilità e di decoro; inoltre vengono elencate nuove strategie da mettere in campo, tra le quali spicca l’aumento della coesione sociale, cioè il coltivare quelle relazioni positive che tengono connesse le diverse parti di una comunità e che “rammendano” gli strappi nel tessuto sociale: in questo modo diminuiscono i rischi di marginalità e di comportamenti antisociali e, nello stesso tempo, aumenta la sensazione di sicurezza personale dei cittadini, che si sentono meno isolati.

Si tratta di una rivoluzione copernicana, che purtroppo non ha trovato molto spazio nell’applicazione del decreto da parte delle amministrazioni locali di tutto il Paese: probabilmente perché il numero di arresti e di agenti di pattuglia colpiscono l’immaginazione degli elettori molto più di complicati interventi a lungo termine per il contrasto al disadattamento.

Eppure, quando sono state adottate questo tipo di strategie hanno dato risultati significativi: in Islanda si è riusciti, nel giro di un ventennio, a ridurre drasticamente i problemi di dipendenza giovanile da alcool e droghe coinvolgendo i ragazzi in numerose attività extrascolastiche di vario genere (sportive, artistiche ecc.); analogamente, in Portogallo si sono ottenuti buoni risultati decriminalizzando il consumo di qualsiasi tipo di sostanza e proponendo a chi ne è vittima percorsi di riabilitazione. Un altro esempio, sperimentato con successo nella mia città come in tante altre, è il portierato socialeuna presenza di supporto, soprattutto per le persone più fragili e nei quartieri più difficili, che diventa rapidamente l’irrinunciabile fulcro di un nuovo modo di con-vivere, che riduce la solitudine e il disagio, accrescendo la percezione di sicurezza dei cittadini e rendendo meno probabile l’emarginazione e il suo frutto peggiore, la criminalità.

Nel mio Comune ci sono molte associazioni che si prendono cura degli esclusi e anche l’amministrazione ha profuso risorse e energie in questo campo: tuttavia, questa attività non è ancora concepita come importante per migliorare la sicurezza di tutti. Credo che i miei concittadini, persone tendenzialmente disciplinate e perbene, concepiscano la devianza come una strana eccezione, da contrastare in maniera episodica; sembra prevalere la convinzione (eco di quella cultura calvinista che tanta influenza ha avuto sul nostro territorio) che i comportamenti illegali siano una scelta individuale, slegata dalle condizioni di vita: per questo si chiede al Comune un’efficace azione di contrasto al crimine, si invocano misure repressive sempre più severe, ma non si coglie pienamente il potenziale positivo delle politiche di coesione sociale.

Tocca prima di tutto a noi cittadini comprendere che il benessere di ciascuno e la solidarietà reciproca sono gli strumenti migliori per vivere tutti più sereni; dobbiamo superare l’atteggiamento passivo che si accontenta di esigere dagli amministratori la sorveglianza e la repressione dei reati e imparare a collaborare, per rendere le nostre città sempre più forti e sicure.

 

 

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CAT: Enti locali

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