Ma è “secondaria” l’affluenza o sta diventando secondaria la democrazia?
Il dibattito sulla mancata affluenza continua a ricoprire un ruolo cardinale da qualche anno a questa parte, nonostante Matteo Renzi dica che sia “un problema secondario”. Questa del Presidente del Consiglio a detta di molti è stata un’uscita infelice, anche se non totalmente priva di senso. Sicuramente può rappresentare un errore se ci mettessimo a confrontarla con il concetto che abbiamo di democrazia, salvo però poi scoprire che quel tal concetto rimane ben poco concreto.
La cosiddetta “scelta di non scegliere” d’improvviso si trasforma da qualunquismo e ignoranza a “consapevole scelta civile” atta forse a lanciare un segnale, e forse come sempre accade la verità -ammesso che esista – sta nel mezzo. Se si guardano i dati della stragrande maggioranza delle tornate elettorali negli ultimi anni in Italia e fuori, il dato comune è quello della ‘massiccia astensione’. Detto questo ci risulta difficile pensare che sia tutta una scelta studiata a tavolino dall’elettore, come risulta altresì complicato pensare che tutti subiscano passivamente un totale e frivolo disinteresse nei confronti dell’apparato democratico dopo decenni passati sotto gli slogan del voto come dovere di riconoscenza a chi ha “combattuto per permettertelo”.
Dando un’occhiata alla notizia più fresca ossia al voto regionale in Emilia e in Calabria, vero è che la progressiva delegittimazione dei Consigli regionali a suon di centrismo europeo militante e inchieste su spese pazze ha portato un logico disinteresse verso questo tipo di istituzioni, vero è anche che l’affluenza alle urne in caso di elezioni locali è sempre mediamente più bassa, tuttavia questo tipo di analisi appare ormai superato.
Prendendo le elezioni politiche ad esempio, scopriamo che già nel 2008 l’astensione fu pari al 19%, per poi arrivare al 25% nel febbraio 2013 nonostante l’improvvisa esplosione del Movimento 5 Stelle e le scuse sul maltempo come possibile fattore incidente: d’altronde «chissà perché non piove mai quando ci sono le elezioni» , cantava qualcuno. Il giorno dopo fu lo stesso allora Ministro Cancellieri ad ammettere che «sull’affluenza in calo non credo abbia influito il maltempo, visto che i seggi erano ovunque accessibili. Certo – aggiunse il Ministro dopo aver convocato una conferenza stampa alla vigilia per invitare gli italiani al voto- persone anziane che col maltempo hanno scelto di restare a casa ci sono state. Ma il calo del 6% non può ovviamente dipendere da quello».
Certo che non dipende da quello, come l’abnorme astensionismo calabrese ed emiliano non può dipendere solo dal poco appeal delle regionali, soprattutto se consideriamo l’Emilia-Romagna come una regione pioniera in fatto di partecipazione popolare, che già aveva visto aumentare l’astensione di 4 punti percentuali dalle elezioni politiche 2008 a quelle del 2013. Un calo che nello stesso periodo ha contraddistinto ogni regione italiana, nessuna esclusa. Logico poi non attendersi il botto alle tornate locali, eccetto quando inglobano sconvolgimenti politici all’orizzonte: ricordiamoci ad esempio le infuocatissime Amministrative del 2011, che comunque salvo annunciare la caduta del governo (già formalmente caduto), poco hanno inciso sugli avvenimenti seguenti.
Per provare a intuire in che direzione stiamo andando occorre fare una carrellata dei maggiori eventi elettorali in occidente e soprattutto in Europa, anche solo limitandosi agli ultimi anni, senza fare distinzioni tra regionali, nazionali, europee. In Francia durante le elezioni politiche dello scorso marzo che hanno visto emergere il Fronte Nazionale di Marine Le Pen (immaginandosi Salvini), l’astensionismo ha raggiunto una quota record sfondando il 35% in un paese dalla grande e matura tradizione politica come quello transalpino. Durante le elezioni del sindaco di New York De Blasio l’affluenza è stata bassissima, e sono andati alle urne circa un terzo degli aventi diritto, risultati in netto calo già in confronto alla precedente tornata che aveva visto vincere Bloomberg, con un’astensione al 38%. Anche le recentissime elezioni del Midterm negli Stati Uniti hanno confermato il trend: nonostante in generale si sia parlato di buona affluenza alle urne, solo meno della metà degli under 30 è andata a votare, circa il 13% sul 28% previsto. Questo non è certo un dato confortante per chi passa quasi metà del suo tempo a parlare di futuro.
Il discorso però è ampio e chiede appunto di essere inserito in un contesto globale: dati statistici dicono che il percorso dell’astensionismo nei paesi UE è un lungo sentiero che nasce all’inizio degli anni Ottanta, e non una conseguenza fulminea dettata dagli Indignados (a loro diedero la responsabilità durante le politiche spagnole del 2011) o dalla pioggia. Fino al 1979 in Italia l’affluenza si era mantenuta oltre il 90%, per poi non toccare più vette simili, anzi, scendendo costantemente e inesorabilmente fino al 75%. La Spagna che non è mai stato un paese dall’alta affluenza ha comunque registrato nelle politiche 2011 la percentuale più alta d’astensione dal 1986 (oltre 30%), preannunciando il record francese sovracitato. Record anche in Portogallo nel 2011 (53,4% di astenuti!), come in Grecia nel 2012 (37%, nonostante elezioni anticipate e stato di pressoché emergenza).
A questo si allaccia la visione sulla partecipazione alle elezioni europee, mai come oggi considerate di secondo piano, che coinvolge tutta l’eurozona e che scende costantemente da trent’anni: prendendo la zona centro settentrionale in Germania alle elezioni europee del 1979 votava il 65%, nel 2014 il 48%; in Francia siamo passati dal 60% (1979) al 42% del 2014. Scendendo a sud, dove Bruxelles morde di più, il trend è quasi tragico: in Italia nel 1979 l’85% degli aventi diritto dava il suo voto al Parlamento europeo, nel 2014 il 57%; in Portogallo siamo passati dal 72% del 1987 al 33% delle ultime; in Grecia dall’81% del 1981 al 60% scarso del 2014.
Nell’est europa la situazione non migliora di certo: le europee del 2014 hanno segnato il picco record d’astensione (28%) anche in stati che votano per Bruxelles da soli dieci anni (Repubblica Ceca, Slovacchia).
Gli unici paesi che invertono il trend sono la Danimarca, che passa dal 47% del 1979 al 56% del 2014, la Gran Bretagna che parte da un 32% e arriva seppur con alti e bassi a un 35%, e la Svezia (dal 42% del 1995 al 51%). Detto questo vanno evidenziate due differenze sostanziali: la prima è sulle soglie d’affluenza, comunque basse; la seconda, forse più incidente, è l’assenza dell’euro in questi paesi.
In conclusione possiamo dire che i segnali spesso non vengono lanciati spontaneamente, ma questo non vuol dire che i segnali non siano presenti. Il concetto di democrazia pare davvero esserci sfuggito di mano, o quantomeno molti di noi hanno perso il passaggio verso una deriva sempre più oligarchica e sempre meno rappresentativa. Nonostante da qualche pulpito si chieda alla maggioranza nazarena di ascoltare il paese (non ultimo Tondelli oggi su questa piattaforma) la reazione delle forze politiche appare nulla, e sembra che la partecipazione in fondo sia considerata alla stessa stregua dell’astensione. Insomma, la sensazione è che “il problema secondario” non sia neanche più l’astensione, ma la partecipazione stessa, perché tanto del suffragio universale pare non interessarsi più nessuno e, considerando l’indole umana (e politica) del “do ut des“, non è certo una bella prospettiva.
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