Un pareggio elettorale che svela le grane dei partiti
Il risultato della elezioni regionali è apparso più limpido rispetto a quanto prospettato. Nessun partito nazionale può cantare vittoria, mentre emergono leader regionali, i quali avevano già tessuto un rapporto con la popolazione ben prima della sovraesposizione mediatica causata dalla pandemia. Il pareggio rafforza l’alleanza di governo, che sembra poter placidamente raggiungere la fine della legislatura, guardandosi più dalla spinta autonomista dei poteri locali che dal sovranismo.
Se il Matteo fiorentino è lo sconfitto principale, il Matteo milanese ha poco da festeggiare. Il risultato a macchia di leopardo sembra frutto di un’attenzione spropositata all’arrocco toscano rispetto al consolidamento del partito. Sia la lista civica di Luca Zaia in Veneto che quella di Giovanni Toti in Liguria macinano consensi alla lega nazional-sovranista. Quello ligure è uno smacco di scarsa valenza politica ma che dimostra l’incapacità di consolidarsi in un territorio che è entrato da anni nell’orbita leghista. Si palesa il problema di formare una classe dirigente al di fuori dalle roccaforti lombarde e venete.
Un partito basato su slogan come “basta euro” e “stop invasione” non può essere in grado di rappresentare l’intera nazione. Un NEET di Casoria non ha le stesse necessità di un imprenditore vicentino. I due possono votare lo stesso simbolo con continuità solo se il partito impara a vivere i rispettivi territori, prospettando soluzioni grazie ad una classe dirigente locale in grado di elaborarle. Urlare dal Papeete può far vincere un’elezione, prima di ricadere nel dimenticatoio come il Matteo fiorentino, ormai ridotto a ectoplasma politico.
L’ex ministro dell’interno si può consolare con la situazione difficile attraversata dall’ex alleato di governo. Malgrado l’importante vittoria referendaria, il M5S appare in piena crisi di identità. Raccoglie risultati disastrosi al nord come al sud, in alleanza con il PD e in solitaria. L’assenza di una classe dirigente sui territori non produce leader in grado di rappresentare un punto di riferimento locale. Il fondatore contribuisce allo spaesamento continuando ad affermare fesserie sulla fine della democrazia rappresentativa.
L’avvento di Alessandro Di Battista potrebbe rappresentare il colpo di grazia. Il leader movimentista potrebbe diventare segretario con il sostegno della base, per inimicarsi subito dopo gruppo parlamentare ed elettorato. I cittadini necessitano di una classe politica che viva in mezzo a loro, li comprenda, li assecondi e li accompagni. Passare il tempo tra Iran e Sudamerica, tornando solo per promettere l’impossibile, non è il migliore biglietto da visita.
Se il M5S arginerà le velleità di Alessandro Di Battista, potrà continuare a vivacchiare per alcuni anni grazie ad uno zoccolo duro del 10-15% di elettori che si presenta quasi esclusivamente alle tornate nazionali. In questo caso, il PD avrà gioco facile a ignorare le alleanze con il residuale M5S territoriale, salvo in alcuni casi specifici.
I problemi del PD non sono innescati da un M5S ridimensionato o da un asse sovranista poco coerente e dalla leadership ammaccata. Il PD soffre per essere obbligato a governare per inerzia altrui, pur rappresentando solo il 20% degli elettori. Condannato a essere un partito di potere che fatica a liberarsi del cieco liberismo e dell’europeismo acritico. L’assenza di un dibattito interno sul MES ne è riprova drammatica. Dentro le stanze del Nazzareno, il MES è un dato acquisito che non viene applicato solo per la ritrosia degli alleati. Al contrario, l’accettazione del prestito dovrebbe avvenire previa riflessione profonda sui costi e i benefici che hanno spinto gli altri paesi a non attivare il meccanismo.
Un altro problema è rappresentato dalla geografia elettorale plasmata dalle regionali. Il PD, pur difendendosi, arretra nelle regioni rosse, incontrando maggiori difficoltà in quelle più trascurate dai governi nazionali, Umbria e Marche. Crolla in Veneto sotto la spinta autonomista, soffre nel resto del nord, ad eccezione dei centri storici di Milano e Torino. Funziona al sud quando si affida a capipopolo in grado di plasmare liste che collezionano tutto e il contrario di tutto.
Michele Emiliano e Vincenzo De Luca hanno dimostrato di avere un rapporto con la popolazione invidiabile, ma la loro linea politica cede al trasformismo e al populismo. Da una parte, chi li ha sostenuti in queste elezioni regionali potrebbe, in un’altra occasione, preferire qualsiasi lista da Casa Pound al Partito Comunista. Dall’altra, il protagonismo dei presidenti regionali, non solo Zaia, ma anche Bonaccini, De Luca ed Emiliano, può determinare un conflitto con il governo centrale per l’attribuzione delle competenze. Nicola Zingaretti rischia di vedere i governatori del PD in prima linea per chiedere l’autonomia differenziata, proprio quando la pandemia ci ha ricordato l’importanza di un coordinamento statale.
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