America

Turning point USA. L’America nella spirale della violenza politica

L’assassinio di Kirk è l’ultimo di una serie di violenze, e la radicalizzazione del dibattito è ormai oltre il livello di guardia. Le reazioni di Trump e dei Maga aggravano la situazione. Servirebbero unità e responsabilità, ma la democrazia e la pace interna sono a rischio.

16 Settembre 2025

Il tragico assassinio di Charlie Kirk, ad opera del ventiduenne Tyler Robinson, e le sue conseguenze confermano, una volta di più, quel che molti osservatori segnalano già da anni riguardo alla deriva della società americana verso uno stato pericolosamente vicino ad un punto di non ritorno, prodromo di una guerra civile a bassa intensità. La morte dell’attivista repubblicano avviene in una nazione che non è mai stata immune alla violenza politica, come dimostrano i quattro presidenti (su quarantasei) assassinati, ma certamente l’evoluzione degli ultimi anni è inquietante e preoccupante. La realtà degli USA degli ultimi 10-15 anni è sempre più caratterizzata dalla violenza nel dibattito pubblico, politico e culturale. Una violenza in primo luogo verbale, caratterizzata da toni e contenuti spesso di natura estremista, mirata alla delegittimazione dell’avversario, identificato come un nemico da sconfiggere e ridurre al silenzio al fine di “salvare” la nazione da esso. Tali comportamenti si collocano sia a destra che a sinistra, e non si limitano agli attori politici, ma sono diffusi nella società. I media, i social network e le università sono diventati campo di battaglia di un’ossessiva contrapposizione ideologica, che non è quasi mai stata assente nella storia americana, ma è arrivata oggi ben oltre i livelli di guardia, similmente a quanto accadeva a cavallo degli anni ’60 e ’70.

Alla violenza verbale, purtroppo ha fatto seguito quella fisica, come ha sperimentato pochi giorni fa il povero Kirk. Le statistiche riguardanti le aggressioni determinate da motivi politici negli USA sono impressionanti. Nei primi nove mesi di quest’anno tali atti hanno conosciuto un aumento di quasi il 50% rispetto al 2024, e sono in costante e notevole crescita dall’inizio del decennio. Tali azioni sembrano inoltre essere oggi molto più accettate e giustificate dall’opinione pubblica rispetto al passato, specialmente da parte della sua componente giovanile, come dimostra un sondaggio della fondazione Fire (Foundation for Individual Rights and Expression) secondo cui il 34% degli studenti universitari ritiene legittimo ricorrere alla violenza per impedire a qualcun altro di esprimere idee ritenute offensive. Ma tali inclinazioni non sono confinate nei college, come spiega un’analoga indagine del Prof. Kevin Wallsten, della California University, da cui si evince che la propensione alla violenza per fini politici è molto più diffusa tra i millennials e la GenZ, rispetto a quanto accade nelle generazioni più anziane, indipendentemente dalla frequentazione universitaria. Dal 2020 in poi i casi più eclatanti, prima dell’omicidio di Kirk, sono stati l’aggressione al marito di Nancy Pelosi, nella sua abitazione, in cui era in quel momento assente la speaker democratica; il progetto di rapimento della governatrice del Michigan, Gretchen Whitmer; l’incendio della casa di John Shapiro, governatore della Pennsylvania, con lui e la famiglia che dormivano all’interno; l’omicidio della deputata statale del Minnesota Melissa Hortman, lo scorso giugno; l’assassinio di Brian Thompson, CEO di United Healthcare, a Manhattan nel 2024, e naturalmente il fallito attentato del luglio dello scorso anno ai danni di Donald J. Trump.

Quale siano le motivazioni di una tale escalation è motivo di discussione, ma con alta probabilità si può scegliere tra la citata radicalizzazione del dibattito politico, la crescente contrapposizione ideologica, il martellante bombardamento di notizie e dichiarazioni da parte dei social media, tra cui non mancano disinformazione e teorie del complotto, gli sconvolgimenti economici e sociali causati dalla Grande Crisi, dal Covid e dalle endemiche disuguaglianze, e infine le inquietudini di milioni di giovani afflitti da problemi psicologici, accresciuti dalle influenze subite in bolle sui social media e su altri circuiti nichilisti presenti sul web. Tutte possibili cause di turbamenti di menti di soggetti, la cui lucidità è spesso soggetta ad essere intaccata, in un ambiente in cui è largamente diffusa la cultura delle armi individuali, ed è relativamente facile procurarsene una. Del resto, gli episodi di violenza negli USA non sono certo limitati alla finalità politica, e le stragi in contesti scolastici o in altri luoghi pubblici ad opera di individui giovani e psicologicamente fragili non sono rare, purtroppo, sommandosi a quelli relativi alla delinquenza comune e alle organizzazioni criminali dedite al controllo dei traffici illeciti, droga in primis. Le morti per arma da fuoco negli USA sono stimate alla cifra di oltre diecimila unità nel 2025, una cifra incomparabile rispetto agli altri paesi industrializzati, anche in rapporto al numero di abitanti.

Come ricordato all’inizio, gli USA hanno già conosciuto epoche di gravi tensioni sociali e violenze a sfondo politico, come, in tempi recenti, è stato il periodo tra gli anni ’60 e i ’70, quando la contestazione studentesca contro la guerra nel Vietnam, e la corrispondente repressione, le lotte razziali e alcuni attentati a leader di partiti e movimenti popolari insanguinarono il paese. La principale differenza con quel momento storico, tuttavia, deriva dal diverso approccio con cui si rapporta a tali violenze la leadership politica dell’Unione. In particolare, con riferimento alle posizioni assunte da chi detiene il potere esecutivo, ovvero il presidente Donald J. Trump, e la sua maggioranza. Sono stati spesso citati, in questi giorni, i discorsi alla nazione pronunciati dall’allora capo di stato Lyndon Johnson e dal candidato democratico alle primarie presidenziali, Robert Kennedy (di lì a poco anch’egli assassinato), nel 1968, in seguito all’assassinio di Martin Luther King. In essi, i due esponenti del Partito Democratico invitavano la popolazione all’unità e al rifiuto di ogni forma di violenza a fini di vendetta. Oggi assistiamo invece ai propositi vendicativi rivolti da vari esponenti della galassia Maga e dallo stesso presidente Trump, indirizzati a genericamente contro la “sinistra radicale”, che, nella mente del presidente, non si capisce dove inizi e dove finisca. Addirittura l’inquilino della Casa Bianca si è scagliato contro tale parte politica prima ancora che fosse chiara l’identità dell’assassino, promettendo di trovare i responsabili della violenza politica, nonché le “organizzazioni che la finanziano e la sostengono”, imputando solo ad essa la responsabilità per i frequenti fatti di sangue nel paese, sorvolando completamente sugli (ben più numerosi) atti cruenti contro i democratici. Sembra inutile, del resto, far notare che tutti gli elementi indicano come Robinson abbia agito da solo, senza coinvolgimento di altre persone, o tanto meno organizzazioni. Nella delirante sequenza di minacce e propositi di vendetta e repressione espressi da parte di esponenti Maga (brilla Elon Musk: “la sinistra è il partito dell’omicidio”) è rimasto coinvolto persino il governatore repubblicano dello Utah, Spencer Cox, il quale aveva osato esprimere un appello all’unità, alla non violenza e al riconoscimento reciproco di legittimità, che è stato zittito ed etichettato come “imbarazzo nazionale” da Steve Bannon, storico ideologo del movimento che sostiene il presidente.

Tali eventi si inseriscono in un contesto in cui Trump sta già utilizzando i suoi poteri ben oltre i limiti costituzionali al fine di sovvertire l’equilibrio costituzionale tra le istituzioni americane, a danno di Congresso, sistema giudiziario, Federal Reserve e singoli stati. Il presidente è giunto fino al punto di utilizzare la Guardia Nazionale in violazione delle norme che ne consentono l’utilizzo solo su richiesta del governatore del singolo stato interessato, come nel caso della California, e di minacciare una città degli USA, Chicago, con un post sul suo social Truth tra l’inquietante e il delirante, ispirato al noto film Apocalypse now. Non stupiscono del resto più di tanto certi atteggiamenti, da parte di un politico che cinque anni fa è stato già capace di agire in ogni possibile modo per sovvertire l’esito di un’elezione democratica, fino a fomentare l’incredibile assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021, per poi rifiutarsi per ore di chiamare la Guardia Nazionale (in quel caso sì, necessaria) e infine di concedere la grazia a tutti i partecipanti all’azione, non appena si è re-insediato come presidente. Un’azione, vale la pena ricordarlo, in cui sono morte cinque persone, e nella quale i partecipanti erano ben in procinto di colpire fisicamente vari senatori, incluso il vice-presidente Mike Pence, per il quale era pronta la forca, essendosi egli rifiutato di impedire la proclamazione del presidente Joe Biden, vincitore della competizione elettorale. Nello scenario di una spirale di violenza politica ormai presente da anni, caratterizzata dalle azioni di organizzazioni paramilitari di estrema destra (di gran lunga la maggior parte), movimenti radicali di sinistra e “lupi solitari” con problemi psico-sociali, come scrive lo storico Mario Del Pero su Ispi Online, Donald Trump non è la causa, bensì il prodotto di un contesto “di violenza … alimentata dalla polarizzazione, dal rifiuto della legittimità politica dell’avversario e dalla sua reiterata rappresentazione non come un normale competitor politico ma come una minaccia esistenziale per la democrazia statunitense”. Tuttavia, sempre secondo Del Pero, “una volta eletto Presidente ne è divenuto agente primario, gettando benzina sul fuoco di questa contrapposizione e della violenza che ne scaturisce. E anche la sua scomposta risposta all’assassinio di Kirk, nella quale punta immediatamente il dito contro la “sinistra radicale”, è lì a ricordarcelo”.

Gli USA si trovano oggi ad un punto cruciale della loro storia. Ad un turning point, per parafrasare il nome dell’organizzazione fondata e guidata dal defunto Charlie Kirk. La morte dell’attivista dell’Illinois potrà conferire senza dubbio un immediato vantaggio propagandistico alla destra americana, e in particolare a quella parte di sostenitori di Trump che si riconoscono nei gruppi di Alt Right e ultraconservatori. Essa rischia soprattutto però di trascinare il paese in una spirale di vendette, reazioni e controreazioni che potrebbero minare in misura fino ad ora mai vista la democrazia americana, al punto da mettere in discussione, nella sostanza, quel primo emendamento che protegge la libertà di espressione, tante volte celebrato proprio dai gruppi conservatori e libertari, nocciolo duro della coalizione al governo. Oppure potrebbe far prendere coscienza ai più del tragico rischio a cui si trova di fronte il popolo americano, proprio in un’epoca in cui il primato mondiale degli USA è apertamente sfidato da altre potenze, e in cui sfugge a Washington sempre in maggior misura la capacità di controllare e orientare il sistema internazionale. Sfortunatamente, i fatti sembrano far propendere più verso la prima ipotesi. Come avverte il docente di relazioni internazionali Andrea Molle, sull’Huffington Post, “è su questo terreno che l’America si gioca il suo futuro. Se non si riafferma con forza che la violenza politica è inaccettabile, sempre e comunque, se non si recupera la fiducia nel dibattito come unico strumento legittimo, il rischio è che l’assassinio diventi davvero il nuovo linguaggio della vita pubblica. A quel punto, non ci sarà vincitore che tenga e la sconfitta riguarderà l’intera società americana, che da laboratorio della democrazia si sarà trasformata in teatro permanente di guerra civile a bassa intensità. Ed è proprio questo, forse, lo scenario che molti oggi temono ma che pochi hanno il coraggio di affrontare apertamente”. Un monito che vale per l’America, oggi, ma che forse in prospettiva vale anche per l’Europa e per l’Italia stessa, dove le tensioni sono minori, ma in crescita, e dove sia il recepimento dei fatti dello Utah da parte di settori della pubblica opinione, che il comportamento di alcune figure politiche di governo, come si è potuto osservare in questi giorni nel nostro paese, non lasciano ben sperare per il futuro.

 

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