Geopolitica
Chi bombarda ha vinto. Chi piange è colpevole (o morto)
Madri, bambini, carne. Mentre la guerra si traveste da strategia, solo chi soffre paga il prezzo.
C’è una madre che raccoglie il braccio di suo figlio come si raccoglie un’ostia spezzata. Una bambina, a piedi nudi, prega senza saperlo: le sue labbra sono secche, ma i suoi occhi gridano il Padre nostro. Un uomo scava con le mani nella polvere per cercare i resti di chi chiamava moglie. È la processione della carne, non quella dei santi. È Venerdì santo ogni giorno a Gaza. Il cielo ha smesso di essere cielo: è una fucina di metallo e di fuoco. Non piove acqua, piovono pezzi di casa, schegge di memoria, capelli di bambini rimasti impigliati tra le macerie. Eppure, nel cuore di questo Golgota, qualcuno continua ad allattare, a tenere per mano, a benedire. È la teologia dell’umanità, quella che non ha chiese, ma soltanto grembi. Qui non si contano i morti, si seppelliscono i volti. La morte non è mai numerabile. È sempre un nome.
E mentre tutto questo accade, l’uomo più potente del mondo fa silenzio. Non il silenzio del lutto, ma quello del calcolo. Trump osserva, misura, attende. Come un padre che non sa cosa fare del pianto di suo figlio. Solo che quel figlio è il mondo. Freud lo avrebbe chiamato rimosso. O forse Super-Io paralizzato, che cede al principio di piacere sotto la maschera della forza. Il suo attendismo è l’inconscio di un’America che si è sdraiata sul lettino e ha smesso di rispondere.
Gaza brucia. E in Iran si scavano fosse comuni. Israele trema sotto i colpi del cielo. Ma la parola che manca non è guerra. È compassione. È carne. È resurrezione promessa che non arriva. Chi custodirà i nomi dei bambini quando anche le lapidi saranno polvere?
Mentre l’Occidente cerca una narrazione digeribile, la storia prende fuoco. La guerra tra Israele e Iran è scoppiata, senza preavviso ma non senza profezia. L’Iran ha colpito duro: centinaia di droni e missili hanno devastato ospedali, scuole, strade israeliane. Il Soroka Medical Center è diventato campo di battaglia, i corridoi pieni di urla e sangue. In risposta, Israele ha colpito gli impianti nucleari di Natanz, Arak e Fordow. Non è più solo uno scambio. È l’inizio di qualcosa che ha il sapore di un’apocalisse tecnica. L’arma è intelligente, ma il dolore è antico. Gaza è rimasta sospesa, come figlia dimenticata. Oltre 70 i civili uccisi nelle ultime ore. L’ONU parla di “violenza senza precedenti” contro bambini. Eppure si tace. Si tace molto. Chi tace davanti alla carne offesa, diventa alleato del piombo.
A Ginevra si parla. Ministri europei e delegati iraniani cercano un equilibrio che non esiste. La Russia ammonisce: “Non toccate Khamenei, aprireste il vaso di Pandora”. La Cina si offre mediatrice, ma resta ambigua. Il mondo si affaccia su una soglia senza sapere se entrare. Nel frattempo Trump finge di valutare. Due settimane – ha detto. Due settimane per scegliere se entrare in guerra o se restare seduto. Ma in quella pausa, Freud sentirebbe la nevrosi dell’Occidente. Il Super-Io si è dissociato. Il piacere del potere ha divorato il principio di realtà. L’America è diventata sintomo.
C’è una domanda che rifiuta il realismo. E se non fossimo più alla vigilia, ma già dentro la guerra mondiale? Se il mondo fosse già spezzato, ma non lo avessimo ancora riconosciuto? Se il dolore non fosse un’eccezione, ma la nuova regola delle cose? I missili ora sanno pensare. Le difese (Iron Dome, Arrow, David’s Sling) funzionano. Ma nessuno protegge i volti. Le bambine, i padri, le madri. Nessuno intercetta le domande. Nessuno ferma l’odio. In mezzo al caos, resta un’eco. Un gesto. Qualcuno che cura una ferita senza sapere se salverà la vita. Qualcuno che resta accanto. Qualcuno che chiama Dio non per chiedere, ma per non dimenticare. È lì che nasce la salvezza. Dove non c’è vittoria, ma offerta. Non soluzione, ma compagnia. E se la sola pace possibile fosse questa?
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