Geopolitica
Gaza non si affida ai colpevoli: il tempo del Vaticano e dell’Italia
L’accordo raggiunto sulla Palestina, avvenuto grazie al ruolo decisivo degli Stati Uniti e alla mediazione con i Paesi arabi del Golfo, segna un passaggio importante ma mette anche in luce un grande assente: l’Europa. È paradossale che proprio il continente che ha contribuito in maniera determinante alla nascita del problema israelo-palestinese sia oggi spettatore silenzioso, incapace di incidere sugli equilibri di una regione che in larga parte è frutto delle sue stesse scelte storiche.
La crisi mediorientale, infatti, non nasce con la fondazione dello Stato di Israele nel 1948, ma affonda le sue radici nelle mire espansionistiche europee dei primi decenni del Novecento, quando l’Impero Ottomano, pur tra contraddizioni e rigidità, garantiva un fragile ma reale equilibrio tra le diverse componenti etniche e religiose. Con la Grande Guerra e la logica dei nazionalismi, le potenze europee hanno promesso ad arabi ed ebrei la stessa terra, pur di smantellare il dominio ottomano.
È come se un venditore avesse venduto lo stesso bene a due acquirenti diversi, lasciandoli poi a contenderselo tra di loro: così le promesse fatte durante il conflitto — la dichiarazione di Balfour agli ebrei e gli accordi Hussein-McMahon agli arabi — finirono per entrare in collisione. A guerra finita, la spartizione del Medio Oriente in sfere di influenza sotto mandato britannico e francese tradì le speranze di entrambi i popoli, creando Stati artificiali, confini arbitrari e tensioni permanenti.
Da quel momento, l’Europa non solo ha perso la capacità di guidare i processi di pace, ma ha progressivamente assunto un ruolo marginale, oscillando tra dichiarazioni di principio e impotenza diplomatica. Dopo la Seconda guerra mondiale, mentre gli Stati Uniti assumevano la leadership del nuovo ordine internazionale, il Vecchio Continente si limitava a un’azione frammentata e priva di una visione comune: la politica estera dell’Unione Europea è rimasta ostaggio delle divergenze interne, con alcuni paesi più vicini a Israele e altri più solidali con la causa palestinese, rendendo impossibile una linea condivisa.
Gli Stati Uniti, invece, hanno saputo coniugare potere economico, influenza politica e capacità militare, diventando l’unico attore in grado di garantire e imporre accordi. In parallelo, i Paesi arabi del Golfo hanno compreso che la stabilità della regione è un interesse diretto, sia per motivi economici sia per ragioni di sicurezza interna, e hanno scelto di collaborare con Washington in una logica pragmatica. L’Europa, invece, ha guardato da lontano, priva di strumenti e volontà per incidere. È per questo che affidare oggi la gestione della Striscia di Gaza a un paese europeo sarebbe un errore madornale: significherebbe rimettere nelle mani di chi ha contribuito a generare il problema la responsabilità di risolverlo.
Le nazioni che, cento anni fa, hanno disegnato con il righello confini e destini, non possono essere considerate arbitri imparziali. Al contrario, il processo di transizione e ricostruzione dovrebbe essere affidato a soggetti dotati di credibilità morale e riconosciuti da entrambe le parti. In questo senso, due possibili attori emergono: il Vaticano e l’Italia. Il Vaticano, per la sua natura universale e la sua storia diplomatica, rappresenta un’istituzione capace di parlare con tutti, senza secondi fini economici o militari.
Negli ultimi decenni ha sempre sostenuto la soluzione dei due Stati come via unica verso la pace, promuovendo il dialogo interreligioso e la tutela dei luoghi santi. Una supervisione temporanea sotto l’autorità del Vaticano, magari con la partecipazione di rappresentanti ebrei, cristiani e musulmani, garantirebbe una legittimità morale che nessuna potenza politica occidentale possiede. Il Cardinale Pierbattista Pizzaballa, Patriarca latino di Gerusalemme, per la sua conoscenza diretta della realtà locale e per la stima trasversale che gode in entrambi i campi, potrebbe rappresentare una figura ideale per presiedere un comitato di transizione interreligioso. Accanto al Vaticano, anche l’Italia potrebbe svolgere un ruolo prezioso: la sua politica estera, tradizionalmente equilibrata, le relazioni amichevoli con Israele, con i Paesi arabi e con i palestinesi, la rendono uno dei pochi paesi occidentali percepiti come interlocutore credibile da entrambe le parti.
Roma ha inoltre un capitale simbolico e culturale che la pone in una posizione di mediazione naturale, non solo per la prossimità geografica e storica, ma anche per la sua tradizione di dialogo e diplomazia. Tuttavia, perché questa proposta possa tradursi in realtà, deve assumere una forma multilaterale: un comitato di transizione sotto l’egida del Vaticano o dell’Italia dovrebbe operare in coordinamento con le Nazioni Unite, con l’appoggio dei Paesi arabi moderati e con la garanzia degli Stati Uniti. Solo così potrebbe acquisire legittimità internazionale, risorse adeguate e capacità operativa.
Sarebbe inutile, infatti, ripetere gli errori del passato, quando le potenze esterne hanno imposto soluzioni senza ascoltare i protagonisti locali. La pace, per essere duratura, deve nascere dal riconoscimento reciproco, dalla giustizia e dalla cooperazione. L’Europa, in questo scenario, dovrebbe finalmente accettare il proprio ruolo di ex potenza coloniale e limitarsi a sostenere, non a dirigere. La vera lezione di questo nuovo accordo israelo-palestinese è che la diplomazia della forza e dell’interesse ha fallito, e che soltanto un approccio fondato sulla responsabilità morale, sull’inclusione e sul rispetto delle differenze potrà condurre a una stabilità autentica. Il Medio Oriente non ha bisogno di nuovi padroni, ma di garanti credibili: e se l’Europa ha perso la sua voce, forse è tempo che l’Italia e il Vaticano ne diventino la coscienza.
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