Geopolitica
I Kirk hanno un piano. I Mentana un’opinione.
Mentre il mondo democratico (liberale, socialista, verde, popolare e repubblicano) non ha ancora capito niente della realtà che stiamo vivendo, il mondo reazionario e ultra conservatore ha capito e ha un piano.
Nelle ultime settimane è circolata molto sul web un’immagine con un virgolettato di Enrico Mentana, in una versione post-ferie (evidenziata dall’insolita lunghezza dei capelli) in cui affermava pressappoco di trovarci in un tornante storico dove i valori novecenteschi, un tempo creduti immutabili, sono messi in discussione. L’episodio mi ha molto colpito perché ho avuto l’impressione che questo potesse essere il momento in cui, in modo definitivo, una certa parte della classe dirigente italiana potesse incominciare a rileggere quanto accaduto negli ultimi anni con uno sguardo diverso dandone un’interpretazione moderna.
I valori democratici sono certamente in discussione, ma non da oggi o da ieri, e nemmeno dal febbraio 2022, come qualcuno (Mentana compreso) è portato a pensare. Io lo so, e vorrei poterlo spiegare a lui e a tutta la classe dirigente, soprattutto politica e democratica, di questo Paese.
Sì, io penso, con una certa dose di consapevolezza, che l’intera élite democratica italiana (politici, professori, capitani d’industria, giornalisti) vetusta, lenta e televisiva – ben rappresentata per antonomasia dal settantenne Mentana – non abbia capito nulla degli avvenimenti che hanno sconvolto il suo mondo e non stia comprendendo ciò che accade nel nostro presente.
Molti lettori storceranno il naso e smetteranno di leggere, infastiditi dalle affermazioni di un autore sconosciuto che a voi risulta (e risulterà ancora, se avrete la pazienza di proseguire) arrogante.
È l’arroganza di chi, a ventiquattro anni, nel 2017, scrisse un piccolo articolo per alcuni siti di politica locale proprio sull’allarme democratico in Italia e in Occidente, riportando le ricerche sul “deconsolidamento della democrazia” di Roberto Stefan Foa e Yascha Mounk, pubblicate fin dall’anno prima sul Journal of Democracy. Già allora, oltreoceano ci si interrogava su quella crisi dei valori democratici di cui la nostra classe dirigente sembra accorgersi solo ora.
Molti dei principi a cui siamo legati sono in discussione da quando è esplosa la seconda rivoluzione digitale, quella dei social network, che ha cambiato radicalmente la società occidentale. Per l’Italia, possiamo datare l’inizio intorno al 2007-2008. Io avevo circa quindici anni; Mentana ne aveva poco più di cinquanta ed era già una figura dirigente del Paese da quasi un ventennio, prima come direttore del Tg5 e, due anni dopo le sue dimissioni, di quello de La7.
All’epoca, nessuno parve accorgersi di nulla e qualsiasi parvenza di regola europea sull’uso dei dati e diritti digitali arrivò solo in seguito. Anzi, si prestava grande fede alla narrazione dei “pifferai digitali”, secondo cui i social network avrebbero dato voce a tutti, creando un grande spazio di libera comunicazione e decretando l’inizio della fine di ogni autocrazia.
In effetti, per i Mentana di allora, la conferma arrivò poco dopo, quando nel 2010 scoppiarono le “Primavere arabe” raccontate come emblematiche rivolte nate dal basso grazie a Twitter. Né i Mentana italiani, né quelli europei hanno mai nutrito il minimo dubbio, forse troppo impegnati a riproporre la propria figura in questo nuovo mondo piuttosto che a comprenderlo.
A quindici anni di distanza da quei fatti, a voi non è ancora chiaro che sui social network la casualità è quasi inesistente, lo dimostra il profluvio di notizie che vengono rilanciate da giornali e TV e che provengono direttamente da narrazioni artificiosamente costruite ad arte attraverso i social media. Quella che non vi piace la chiamate “disinformazione”, vi affidate ai fact-checker come David Puente e per non capire vi riempite la bocca col mantra che “tutti fanno propaganda online”.
Così, non vi accorgete della vera natura del problema: i social media sono strumenti proprietari, governati da algoritmi, e se diffondono odio e notizie false è perché il loro modello di business è stato concepito, fin dall’inizio, per premiare i contenuti divisivi. Non a caso il “terribile” Peter Thiel è stato uno dei primi finanziatori di Facebook fin dal giugno 2004.
Ricordo quando nel 2015, con il Sindacato degli Studenti, invitammo Enrico Mentana a un incontro in Università Statale. Fu uno straordinario successo di pubblico e la sua performance fu incredibile: tenne incollati alle sedie cinquecento studenti per più di due ore.
Tuttavia, espresse una visione sul ruolo del giornalista che non mi convinse affatto. Sollevando lo smartphone in aria per mostrarlo alla platea, disse che “il giornalista”, appena si svegliava la mattina, era già in ritardo rispetto a “quell’oggetto” nel dare una notizia, suggerendo che il suo ruolo futuro sarebbe stato sempre più quello di selezionare le storie che avevano catturato maggiore interesse del pubblico online.
In sostanza, il giornalista Mentana cedeva il suo ruolo di “selezionatore di notizie” agli algoritmi pubblicitari e si reinventava come narratore delle storie che interessavano al pubblico.
Questa visione, a mio parere errata (oggi più che mai abbiamo bisogno di informazione di qualità, non solo di notizie virali), indicava già un problematico cambiamento fondamentale: lo stravolgimento del rapporto tra società e giornalismo, uno dei pilastri della democrazia novecentesca, liquidato en passant sollevando un cellulare al cielo.
In questi anni, le società occidentali sono state modellate dalla disintermediazione digitale, che ha alterato i rapporti tra poteri e persone, e tra le persone stesse, fino a toccare anche gli aspetti più intimi come la sessualità.
Ma ormai questo è un dato di fatto, non è necessario perdere tempo a discuterne la veridicità della mia affermazione: è la realtà degli ultimi vent’anni. Forse non ve ne siete accorti, ma è successo.
Il problema più urgente oggi non è che voi capiate cos sia successo, ma comprendere ciò che sta accadendo adesso. Perché, anche in questo, voi “Mentana” non avete capito.
Lo dimostra il surreale dibattito pubblico che avete organizzato in questo paese negli ultimi anni.
Già a settembre 2021 si leggevano da mesi analisi sulla concretezza delle minacce russe all’Ucraina, ma per molto tempo, talk show e telegiornali hanno dibattuto sulla possibilità di un’aggressione. Quando, nel febbraio 2022, i russi hanno attaccato, Mentana è parso cadere dalle nuvole, approcciando in modo errato la narrazione del conflitto con interminabili maratone televisive, nella convinzione che sarebbe stata l’ennesima Guerra del Golfo da raccontare minuto per minuto.
Dopo il 7 ottobre 2023, politica, accademia, giornali e TV hanno discusso per settimane della giustezza o meno della risposta israeliana, della proporzionalità, della necessità di attaccare e su quando fosse iniziato il conflitto. Il settantaseienne Paolo Mieli, ospite quasi fisso da Lilli Gruber, ripeteva come una litania: “Ma Lei, al posto di Netanyahu, cosa avrebbe fatto?”, mettendo gli interlocutori del momento nella posizione sgradevole di essere accusati, indipendentemente dalla risposta, di non avere rispetto delle vittime israeliane e concludendo che non vi fossero opzioni diverse da quella militare.
Nel corso della campagna elettorale per le elezioni europee del 2024 il dibattito è stato inondato di analisi sulle alchimie elettorali ora sul Governo italiano, ora su quello francese o tedesco. Dalle indiscrezioni giornalistiche più accreditate sembrava che Ursula Von Der Leyen avesse promesso tutto a tutti, anche ai più impresentabili, pur di avere una maggioranza parlamentare e garantirsi una rielezione. In generale si lanciavano affermazioni sempre più azzardate sul sostegno all’Ucraina, sicuri che tanto le avrebbero garantite gli americani, senza minimamente considerare che un’eventuale vittoria di Trump alcuni mesi dopo avrebbe potuto stravolgere tutto.
In Italia, ma in realtà in tutto l’Occidente, le forze democratiche si sono comportate come i capponi di Renzo, beccandosi a vicenda sulla difesa dell’Ucraina, sulla stabilità mentale di Putin, sull’uso della parola “genocidio” o sul contributo del woke alla vittoria di Trump. Ignorando che in realtà, tutti questi avvenimenti vanno inquadrati considerando che sono le forze reazionarie e conservatrici i principali artefici degli stravolgimenti di questa fase.
Loro sono vivi, hanno compreso la trasformazione delle società occidentali. Sono state le forze più retrive a intercettare e interpretare il malessere generato dalla società digitalizzata. Sono queste forze che, a tutti i livelli, rinnovato idee, modernizzato valori e cambiato classe dirigente, dimostrando di aver capito di vivere in un vero punto di svolta. È da almeno un decennio che si organizzano, investono ed elaborano un legittimo progetto politico coordinato di trasformazione in Occidente.
Quello che sto affermando è che la destra reazionaria e ultraconservatrice occidentale ha compreso la realtà in trasformazione, ha individuato i problemi e ha elaborato la propria soluzione, che si può articolare in almeno quattro elementi di sfida:
1.La trasformazione delle democrazie liberali.
La complessità del mondo e la digitalizzazione hanno messo in affanno i sistemi democratici, facendoli apparire deboli di fronte al modello solido delle autocrazie. La fiducia nelle istituzioni è crollata, mentre si diffonde la convinzione che la partecipazione sia inutile. Di fronte a ciò, il mondo reazionario ha proposto e realizzato la Democrazia illiberale, un termine reso celebre da Viktor Orbán. È un sistema in cui si continua a votare – anzi, il senso della democrazia viene ridotto al solo atto del “recarsi a votare” – mentre si rafforzano i poteri degli esecutivi e si disapplicano nella prassi leggi e comportamenti istituzionali. Il dibattito pubblico è inquinato, il potere giudiziario controllato, gli apparati di sicurezza sono usati per il controllo e il discredito degli avversari e il potere occupato in modo clanistico.
2.Il superamento del diritto internazionale.
L’obiettivo è smantellare il sistema di regole liberali sorto dopo la Seconda Guerra Mondiale, sostituendolo con un ordine basato sui rapporti di forza bilaterali. Questo progetto viene perseguito non con un’uscita brutale dagli organismi internazionali (che esporrebbe all’isolamento), ma con una strategia di svuotamento dall’interno, come dimostra la disapplicazione delle sentenze della Corte Penale Internazionale. Si rimane dentro per godere dei benefici, disattendendo gli obblighi, certi dell’impunità data dalla debolezza del fronte avversario. Si pensi all’Ungheria, che boicotta il sistema sanzionatorio europeo contro la Russia pur facendone parte. In questo progetto convergono anche gli interessi degli oligarchi digitali, desiderosi di smontare le uniche entità in grado di imporre loro delle regole, in primis l’Unione Europea.
3.La manipolazione delle percezioni e la polarizzazione sociale.
I reazionari hanno compreso che attraverso le architetture proprietarie del web, è possibile orientare pensieri e desideri. La realtà personalizzata degli algoritmi, funzionale a scopi commerciali, è al contempo uno strumento di annebbiamento collettivo. In questo senso, la comunione di interessi tra reazionari e oligarchi del web diventa un elemento strategico. Sono state così costruiti circuiti di influenza online, mai indagate e fermate, capaci di avvelenare il dibattito pubblico e creare narrazioni favorevoli alle forze reazionarie demonizzando qualunque avversario. La creazione di un nemico (spesso interno) è fondamentale per attivare i sostenitori, chiamandoli alle armi in difesa della propria esistenza e creando gruppi omogenei e controllabili.
4.La difesa della “comunità”.
A questa sfida si risponde con la riproposizione del suprematismo etnico, si promuovono narrazioni esplicite contro stranieri, minoranze e immigrazione. Posizione poi banalizzata con elementi folkloristici, a tratti paradossali e surreali: è così che la tutela del presepe o una preparazione di un pranzo scolastico diventano elementi caratterizzanti della propria cultura. Il tutto mescolato a una rilettura degli archetipi religiosi in chiave individualista e ultra conservatrice. Si rifiutano le autorità morali esterne (come il Papa), i precetti religiosi si applicano a targhe alterne, mentre trionfano le gestualità sacre.
È in quest’ottica e solo in quest’ottica che vanno letti i tentativi legislativi e costituzionali, le azioni di politica internazionale e la propaganda dei Trump, delle Meloni, dei Salvini, dei Le Pen, degli Orban e dei Netanyahu. Questi quattro elementi rappresentano le sfide politiche cruciali della nostra epoca, quelle che le forze democratiche dovrebbero affrontare elaborando delle visioni alternative per non rassegnarsi a scomparire perché superate dalla storia.
Non possiamo più permetterci che voi Mentana, con la vostra granitica certezza di chi ha visto le contestazioni degli anni ‘60 e ‘70, la caduta del Muro e la “fine della Storia” vi spaventiate e leggiate gli avvenimenti con occhi vecchi proponendo soluzioni che al resto della società appaiono come stralunate.
Io l’ho capito perché a dispetto di Mentana (e sempre per antonomasia voi classe dirigente) ho un indubbio vantaggio: io sono nato dopo il 1989 e non ho vissuto l’epoca che ha formato Mentana, quella che gli (e vi) ha trasmesso come dati di fatto certi valori di democrazia, pace ed europeismo. Se non fosse stato per la famiglia e gli ambienti frequentati, questi non sarebbero nemmeno i miei valori; siamo in pochi ad avere questa fortuna.
Infatti, il giorno dopo la mia nascita si suicidò Sergio Moroni, Tangentopoli trasmise l’idea della politica sporca, mentre la Seconda Repubblica trasmise l’idea della politica scarsa e mignotta. L’Europa ha significato che tutto quello che costava mille lire ora costa un euro o che i tedeschi – già poco apprezzati per racconti dei nonni – ci odiano e vogliono il nostro male; tanto che nel 2008 insieme ai banchieri e ai finanzieri ci volevano affossare come la Grecia e ci hanno obbligato a tenerci i migranti “scarsi” che loro non volevano. La guerra ha accompagnato quasi tutte le mie colazioni prima di andare a scuola, con i titoli del TG5 diretto da Mentana (battuti sullo schermo con un finto suono di macchina da scrivere) che mi aggiornavano sulla guerra in Bosnia, l’anarchia in Albania, la guerra in Cecenia, le Torri Gemelle, l’Afghanistan, l’Iraq, la seconda Intifada, la guerra in Libano e quella in Georgia. Questa è la società e il mondo in cui io ho vissuto.
Ma sia chiaro, che pongo un problema che non è generazionale. In questi anni, ho letto analisi illuminanti di quasi centenari come Rino Formica e Piero Bassetti, e sentito castronerie da giovani che sono discepoli dei Mentana da troppo tempo e che nemmeno sono credibili nelle loro posizioni.
Il problema è che, per comprendere la realtà e i problemi d’oggi, noi ci affidiamo alle persone che da fin troppo tempo sono state interpreti e costruttori di questa realtà.
Apriamo una riflessione seria su questi temi. Oppure potete leggere e ascoltare il sessantanovenne Federico Rampini che ci racconta gli USA da più di venticinque anni e che ha solo recentemente scoperto che dando “da sinistra” ragione ai reazionari può avere molto più spazio come “personaggio” di questo assurdo dibattito pubblico.
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