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Geopolitica

Il Marocco in rivolta

di Caterina Maggi

La Generazione Z è scesa in piazza per protestare contro un sistema politico fondato su disuguaglianze sociali vertiginose; poche settimane dopo, torna sul tavolo il piano di una “regione autonoma del Sahara” proposta dal Marocco, come “la via più percorribile” per la pace

27 Novembre 2025

Questo articolo è stato pubblicato sulla newsletter PuntoCritico.info il 4 Novembre 2025

Andranno a processo in oltre 2.000, dopo un mese e mezzo di manifestazioni, per aver scosso il governo e la corona con i loro cortei pacifici nati su Discord; in 1.473 sono rimasti in custodia dopo essere stati arrestati dalla polizia. Sono i GenZ marocchini, che coordinati sulle piattaforme social dal collettivo GenZ 212 (il prefisso marocchino) si sono riversati nelle strade, in particolare a Casablanca, Agadir, Rabat, Marrakech e Oujda, per chiedere più risorse per la sanità e l’istruzione. In questi giorni stanno già fioccando le prime condanne: per oltre 400 di loro pene severe, fino a 15 anni di carcere; 34 persone invece sono state assolte da tutte le accuse. Una protesta corale che ha ricordato i moti del 2011 e le successive manifestazioni del Rif tra il 2016 e il 2017. Si potrebbe dire che parzialmente le loro richieste siano state accolte: il 10 ottobre Amine Tahraoui, ministro della Salute marocchino, ha annunciato una riforma sanitaria che prevede il potenziamento degli ospedali con investimenti per oltre 6,4 miliardi di dirham (600 milioni di euro) e la ristrutturazione di 1.400 centri sanitari di prossimità, con il completamento dei lavori previsto per il 2026. Inoltre, ha annunciato nuove assunzioni, 500 specialisti che dovrebbero portare i sanitari specializzati marocchini a quota 1.200 entro la fine del 2025. Ma la sanità non è l’unico tasto dolente su cui hanno insistito le proteste di questi due mesi. In Marocco, infatti, la disoccupazione giovanile tocca il 35%, mentre i giovani occupati senza contratto sono oltre il 70%. E i nuovi movimenti di insoddisfazione popolare potrebbero portare le élites a cercare vecchie maniere per distogliere l’attenzione mediatica e silenziare i dissidi interni.

Una generazione di delusi

Ma chi sono la GenZ? Si tratta dei giovani nati tra il 1995 e i primi anni 2000, la generazione di ragazzi che stanno riempiendo diverse piazze di cause diverse tra loro, e tuttavia legate insieme da questo agglomerato di giovani che nonostante le distanze geografiche condivide caratteristiche comuni. Anzitutto, sono ragazzi e ragazze cresciute nell’era dello sviluppo tecnologico, i primi a utilizzare i social network e a fare i conti con le loro potenzialità, ma anche i loro limiti; lo si è visto anche in altre manifestazioni della GenZ, in Nepal e in Madagascar, dove fondamentale è stato l’utilizzo dei social per organizzare le rivolte e far partire le parole d’ordine delle proteste. È anche una delle prime generazioni a vedersi sbattute in faccia le conseguenze dell’inquinamento e del cambiamento climatico, e a fare i conti con sistemi di disuguaglianza radicati nelle scelte di chi li ha preceduti. Infine, sono la prima vera e propria generazione “globalizzata” – quella dei confini più flessibili e della possibilità crescente di muoversi – e hanno creato le basi per una coorte generazionale che non concepisce un mondo con barriere e dogane come lo hanno conosciuto le generazioni precedenti. Gli ingredienti fondamentali, insomma, per la ricetta di un movimento giovanile che ha dalla sua la velocità delle comunicazioni, la condivisione delle parole d’ordine, e la rabbia per quelle ingiustizie che sente di dover subire senza averle causate.

In Marocco non va diversamente che in Nepal e Mozambico. Ad accendere la miccia è stata la marea di fondi e investimenti che invece di coinvolgere criticità strutturali marocchine (la sanità e l’occupazione giovanile in particolare) sono confluiti invece in opere architettoniche importanti per Muhammad VI e il suo entourage, decisamente meno per i meno abbienti: stadi di calcio. Il Marocco, infatti, ospiterà a breve la Coppa d’Africa (Dicembre 2025) e i Mondiali di calcio del 2030 (insieme a Spagna e Portogallo). La costruzione degli stadi e la ristrutturazione di quelli già presenti però, è suonata come uno schiaffo in faccia alla povertà e alle condizioni precarie dei marocchini, in particolare di quel milione e mezzo di giovani disoccupati fotografato da un’indagine del 2023. Soprattutto considerando che mentre per gli impianti sportivi la corona marocchina ha speso 1,6 miliardi di dollari, per la sanità nel 2023 Rabat ha speso circa 28 miliardi di dirham (pari a 2,6 miliardi di euro); in pratica, la sola costruzione degli stadi è costata quanto più di metà del budget annuale per il settore assistenziale medico. Quando perciò il 5 settembre, il re Mohammed VI ha inaugurato a Rabat il nuovo stadio Moulay Abdallah (il più grande al mondo in grado di ospitare 115 mila spettatori) i giovani si sono sentiti traditi per l’ennesima volta e hanno scelto le piazze. Si è trattato, per molti di loro, dell’ennesima manifestazione delle disuguaglianze sociali, in un paese dove la scuola e la sanità sono per molti un bene di lusso e che, anche se ospiterà uno degli eventi sportivi più costosi al mondo, resta il Paese con il PIL pro capite più basso tra gli organizzatori dei Mondiali dal 1990. Quando poi le proteste pacifiche sono state represse con la violenza, causando anche tre morti, l’indignazione è diventata rabbia e in alcuni casi nelle aree del Sud come Agadir (ancora più colpite dalla disuguaglianza sociale centro-periferia) atti violenti. Per ora le proteste sono contro il governo e la sua corruzione, in particolare contro il ministero della sanità che detiene il record (negativo) di interrogazioni parlamentari, principalmente connesse ai disservizi nelle aree rurali, dove i pazienti in alcuni casi sono arrivati a doversi pagare la benzina dell’ambulanza per poter essere ricoverati in un ospedale. Non ancora quindi (o almeno non del tutto) contro il re e il sistema in generale. Una costante del rapporto tra politica e opinione pubblica marocchine, dove il re è visto come il garante del popolo rispetto al corrotto sistema dei partiti. E questo crea diversi problemi per la creazione di un movimento di protesta coeso, sia per ragioni interne che per ragioni esterne.

Tra fiducia e…fosfati

Anzitutto, come dichiarato dallo stesso movimento GenZ 212, il movimento non risponde né si riconosce in nessun partito. Il che ovviamente crea un problema quando si deve cercare di convertire l’insoddisfazione dei giovani in voti alle elezioni, dove infatti a vincere è tendenzialmente l’astensionismo. Come avviene anche in altri paesi dell’area SWENA (South West East North Africa) la presenza della corona indebolisce la risposta democratica dei partiti, che risultano limitati nella loro azione; l’immobilismo della politica (e la corruzione) generano quindi sfiducia negli elettori, il che indebolisce ancora di più l’immagine dei partiti e rafforza quella della corona, vista come l’ultimo e l’unico garante dei bisogni dei sudditi. Se poi si aggiunge che per i marocchini il re non è solo una figura politica, ma anche spirituale e patriottica, un simbolo della resistenza anti-francese, risulta difficile che un movimento spontaneo nato dal tam-tam sui social possa strutturarsi fino a diventare una struttura organizzata e perché no, un movimento politico sulla scia dei movimenti anti-sistema già visti in altri anni e altre latitudini.

E poi c’è una questione esterna, un tempismo un po’ tanto comodo per sembrare casuale: quello di una questione estera che interviene per stornare l’attenzione dalle questioni interne. Casualmente, dopo mesi di immobilismo (anzi anni, almeno 50) proprio mentre il Marocco si prepara a punire i dissidenti dei movimenti giovanili, dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite arriva una svolta epocale: la politica marocchina sull’ “autonomia” del Sahara Occidentale sotto sovranità marocchina, oggetto di un conflitto vecchio 50 anni anche a causa dei ricchi giacimenti di fosfati, viene riconosciuta dalle Nazioni Unite come “la via più percorribile”. Decisione immediatamente salutata da Rabat e dalla sua monarchia in crisi come un evento storico; decisamente meno dal Fronte Polisario, il movimento indipendentista nato nel 1973 e diventato il principale avversario del Marocco nella causa per l’autodeterminazione del popolo Sahrawi. I Saharawi, che popolano l’ex colonia spagnola occupata dal Marocco nel 1975, sono un gruppo etnico stanziato nella vasta area del deserto tra Marocco e Mauritania, etnicamente parlando più vicini alle popolazioni nomadi della vicina Mauritania, che non ai ceppi di tipo berbero delle aree costiere della zona. Non sarebbe la prima volta che la corona marocchina sfrutta la questione del Sahara Occidentale per dirottare l’attenzione della società e del mondo rispetto a dinamiche interne. Quando il conflitto per l’indipendenza del Sahara occidentale ebbe inizio, negli anni Settanta, il re usciva incolume per un pelo da due golpe militari avvenuti a stretto giro, nel 1971 e nel 1972. Per mettere a tacere il dissenso interno e soprattutto il malcontento dell’esercito, il re sposò allora la causa irredentista del “Grande Marocco” promossa dai partiti più nazionalisti: un modo per trovare il capro espiatorio perfetto e tenere impegnati sia i soldati che l’opinione pubblica marocchina su un altro fronte e un’altra causa, mentre la corona metteva a segno una serie di rapimenti a danno di dissidenti e oppositori. Stranamente, a 50 anni di distanza, di nuovo a seguito di un periodo di crisi politica che minaccia la monarchia, il Sahara Occidentale torna sul tavolo pronto per essere usato come specchietto per le allodole per stornare l’attenzione dell’opinione pubblica marocchina e internazionale dalle proteste. Uno specchietto per le allodole appunto, perché è improbabile che anche una totale annessione del territorio possa cambiare la situazione per il popolo marocchino: il sistema di sfruttamento e disuguaglianza sostenuto corposamente dall’Occidente, che vuole mettere le mani sulle riserve di fosfati, è lo stesso che distribuisce male la propria ricchezza, con un sovrano che spendeva (nel 2022) almeno 2,8 miliardi di dirham all’anno per sé e il proprio entourage quando soltanto alla periferia di Rabat le sospensioni della rete idrica avvengono su base quotidiana.

Sarebbe troppo severo però (o troppo poco) limitare il sentimento irredentista alla sola “strategia di distrazione” delle élites: per molti marocchini, l’annessione del Sahara Occidentale rappresenta l’ultimo atto di un processo di decolonizzazione. Anche qui sta una sfida per la GenZ 212 o meno: ripetere lo stesso errore dei padri e farsi distrarre, o tentare un cambiamento reale e radicale della struttura (corrotta) delle istituzioni? In altri Paesi dove la generazione dei delusi si è rivoltata, ce l’ha fatta. Non c’è motivo per cui ciò non riesca anche in Marocco.

Africa marocco
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