
Geopolitica
Israele e Iran nell’ora della guerra. Netanyahu tra clamoroso successo e tragico azzardo
L’attacco israeliano è stato un successo militare, ma i rischi del conflitto sono notevoli e il buon esito a livello strategico non scontato. Gli USA e Trump, alla finestra, dimostrano confusione decisionale e carenza di leadership, gli europei confermano la loro irrilevanza.
L’attacco israeliano all’Iran, iniziato il 13 giugno, rischia di segnare una forte cesura nella storia della regione mediorientale, e del mondo intero. Per la prima volta, dopo gli scambi di colpi preliminari dello scorso anno, Gerusalemme e Teheran si trovano a combattere sul serio, brandendo non il fioretto, ma la spada. O meglio, missili balistici e, nel caso di Israele, aeronautica militare, da indirizzare su un gran numero di obiettivi nemici di primaria importanza. La principale motivazione addotta dal governo israeliano, è stata, con ampia evidenza, la necessità di impedire lo sviluppo del programma nucleare persiano, e, possibilmente, distruggerlo. Risulta effettivamente difficile rimproverare agli israeliani la preoccupazione per un Iran, acerrimo nemico dello stato ebraico, proiettato verso la dotazione di armi nucleari, in un futuro più o meno prossimo. Le recenti affermazioni di Rafael Grossi, direttore dell’AIEA, che hanno denunciato la scarsa collaborazione delle autorità iraniane, nell’ambito del programma di ispezioni internazionali attuato in virtù del Trattato di Non Proliferazione (TNP), oltre a fatti già noti, come il ritrovamento nel 2023 di uranio arricchito all’83% nel sito di Fordow, sono servite da base di legittimazione, in modo più o meno pretestuoso, all’azione militare. Non vi era, ad ogni modo, una vera impellente urgenza di intervenire ora, essendo stato riconosciuto, dalla quasi totalità degli osservatori, che il regime degli Ayatollah, pur se in grado di arricchire l’uranio fino alle quantità necessarie a costruire la Bomba, potenzialmente nel giro di poche settimane, è molto più lontano dalla capacità di realizzare effettivamente l’arma nucleare (da diversi mesi a due anni, probabilmente), e ancor più dall’essere in grado di montarla su un vettore missilistico (altri tipi di vettori non ne ha). Tanto più che erano in corso in Oman, fino a pochi giorni fa, i negoziati tra Teheran e gli USA, pur se condotti con difficoltà, allo scopo di raggiungere un accordo per la limitazione o l’interruzione del programma iraniano, in cambio della revoca di sanzioni economiche al regime.
Naturalmente nessuno, in ltalia e in Occidente, può leggere i pensieri di Netanyahu e dei suoi ristretti collaboratori all’interno del war cabinet, ma l’impressione, supportata da diversi analisti (molto chiaro ed esplicito è il Generale Giuseppe Cucchi su Limes, ad esempio), è che lsraele abbia sostanzialmente colto il momento favorevole, per piazzare il colpo pianificato da anni, e che l’obiettivo da raggiungere non si limiti al “taglio dell’erba” del programma nucleare iraniano, ma consista nel bersaglio grosso: il crollo degli Ayatollah, anche come conseguenza indiretta degli strike nelle settimane o nei mesi successivi ad essi. Lo stato di debolezza del regime di Teheran è lampante: Khamenei e i suoi negli ultimi anni hanno dovuto sopportare le forti proteste popolari seguite alla morte di Mahsa Amini, la cronica crisi economica, la perdita dell’alleato Assad a Damasco e la decapitazione di Hamas e soprattutto di Hizbullah da parte delle forze armate israeliane. Tali colpi sono stati aggravati dall’umiliazione di aver assistito ad alcune di queste operazioni, come l’esecuzione del leader di Hamas, Ismail Hannyeh, sul proprio suolo, senza che la Repubblica Islamica sia stata capace di evitarlo. Inoltre, il duplice scambio di colpi dello scorso anno, con rappresaglie iraniane su Israele e contro-ritorsioni di quest’ultimo, hanno rappresentato una prova generale della guerra odierna, e hanno lasciato in dote a Gerusalemme la possibilità di colpire un nemico, che non aveva ancora rimesso in sesto le difese contraeree soppresse allora. Lo scenario sul campo presenta oggi le forze armate israeliane (IDF) in grado, come non mai, di colpire, da vedere se in maniera decisiva, il regime iraniano, con la ragionevole probabilità di non trovarsi a subire ritorsioni da parte dei suoi proxy ai propri confini, già eliminati o messi temporaneamente fuori combattimento. In quest’ottica, la consapevolezza dello scarso apprezzamento (eufemismo) degli iraniani verso il proprio regime, ha incoraggiato il governo israeliano a spingerli, tramite pubblici appelli, alla rivolta popolare, sull’esempio di altri popoli che, nella storia, si sono ribellati a dittature messe in scacco da interventi militari di potenze esterne.
E’ chiaro che in base all’eventualità e al grado del successo dell’iniziativa di Gerusalemme, sia riguardo l’obiettivo del programma atomico, che a quello relativo al cuore del regime, si definirà verosimilmente il giudizio storico su tale azione militare. Durante la prima settimana di bombardamenti incrociati l’IDF ha confermato tutto quel che si sapeva riguardo alla capacità di individuare gli obiettivi e di portare a segno i colpi con chirurgica precisione. Missili balistici e F-35 hanno decapitato i vertici militari di Teheran, analogamente a quanto era accaduto con Hizbullah lo scorso anno, hanno in gran parte neutralizzato i sistemi di difesa aerea e hanno seriamente danneggiato le strutture di superficie di quasi tutti gli impianti coinvolti nel programma nucleare. Impressionante è stata soprattutto la capacità di andare a colpire con esattezza alcune delle massime cariche militari del paese, facendo intendere di avere occhi e orecchie ovunque, nello stato persiano. Di fatto, i jet con la stella di Davide fanno quasi quello che vogliono nello spazio aereo iraniano (in Italia qualcuno diceva che non sarebbero stati minimamente in grado di entrarvici…), e costringono di fatto i vertici del regime a nascondersi in luoghi segreti, ma rimane pur evidente, come spiega Angelo Panebianco sul Corriere, quanto sia complicato vincere una guerra e far cadere una dittatura pervasiva con la sola offensiva aerea, ben sapendo che l’invasione terrestre dell’Iran è fuori discussione, se si esclude qualche possibile azione di forze speciali. Analogamente, lo stesso programma nucleare può essere certamente ritardato, ma non completamente neutralizzato, senza riuscire a distruggere gli impianti di arricchimento dell’uranio di Natanz e Fordow, situati in profondità nel sottosuolo e, nel caso del secondo, all’interno di una montagna. Notoriamente Israele non ha la capacità e gli strumenti per raggiungere questi ultimi obiettivi, mancandogli le potentissime bombe GBU-57 MOP, ad alta capacità di penetrazione, in dotazione ai soli USA, e trasportabili solo da bombardieri pesanti, che Israele non possiede.
Se l’aeronautica di Gerusalemme ha mostrato tutta la sua efficacia offensiva, va pur detto che anche le rappresaglie iraniane hanno prodotto danni nelle città israeliane, sebbene in misura molto ridotta, rispetto a quanto accade sotto i cieli di Teheran. Soprattutto, non è da sottovalutare l’impatto psicologico per una popolazione civile che, per quanto preparata ai lanci di razzi da Gaza e dal Libano e agli attentati terroristici, e allenata a rispondere agli allarmi sui cellulari e a correre nei rifugi, non è certo abituata a trovarsi sotto attacchi missilistici e a vedere le proprie notti illuminate dai traccianti dei vettori iraniani e di quelli dei sistemi di difesa aerea. Sistemi, che, imperniati sugli Arrow, sono validi ed efficaci, ma non garantiscono la totale invulnerabilità. Inoltre, un interrogativo si pone inevitabilmente riguardo la disponibilità per Israele di razzi per la contro-missilistica, da mettere in relazione con la quantità di vettori a disposizione degli Ayatollah. Gli USA, con la loro marina e i sistemi THAAD stanno aiutando, ma, in ultima analisi, chi, tra Gerusalemme e Teheran finirà prima a corto di munizioni? Sul tema, i vertici dell’IDF preferiscono non commentare. Fino ad ora i morti civili si fermano a ventiquattro, a Tel Aviv e nelle altre città israeliane, contro alcune centinaia in Iran, e questo va certamente a merito dell’organizzazione della difesa civile dello stato ebraico, ma è noto che la popolazione di uno stato avanzato e moderno è meno disposta, alla lunga, a sopportare i costi di una guerra sul proprio territorio.
L’offensiva di questi giorni ha rivelato tutta la superiorità tecnologica, organizzativa e militare di Israele, e potrebbe, nel migliore dei casi, portare ad un grande successo strategico per Netanyahu. Tuttavia gli indizi di altrettanto grande pericolosità, generata dall’azione di Gerusalemme, sono allo stesso modo ben presenti. Per la stessa popolazione israeliana, naturalmente, ma anche per lo scenario dell’intera regione mediorientale, e non solo. Un’espansione del conflitto non è affatto improbabile, a cominciare dalle tentazioni ad intervenire che percorrono le stanze della Casa Bianca, e un eventuale coinvolgimento di Washington porterebbe inevitabilmente a rappresaglie di Teheran contro le basi americane nell’area, e al tanto temuto blocco dello stretto di Hormuz, con tutto quel che ne conseguirebbe anche per i paesi arabi tradizionalmente alleati di Israele, oltre che per i commerci e l’economia globale. La stessa eventuale caduta del regime a Teheran non sarebbe affatto garanzia di pace e democrazia in quel paese, ma, dati i precedenti, potrebbe determinare grave instabilità, e finanche guerre civili tra fazioni contrapposte, su base ideologica, o etnica, data la non uniforme composizione della popolazione dello stato persiano. L’impressione, però, è che questi rischi a Netanyahu importino poco. Un Iran diviso e dilaniato in uno scenario di tipo “siriano”, cinicamente, sarebbe pur sempre meglio di avere di fronte la Repubblica Islamica. Facendo un passo oltre, dato il proverbiale cinismo del leader israeliano, non sarebbe nemmeno una sorpresa scoprire che tra le motivazioni dell’attacco vi sono state anche la necessità di distogliere l’attenzione dalla tragica situazione a Gaza e di congelare la crisi di governo in corso alla Knesset.
Le motivazioni a portare l’attacco sui cieli persiani, in definitiva, sono state molto probabilmente molteplici, raccolte in una sorta di “congiuntura astrale” favorevole ad Israele. E’ stata una precisa scelta politico-strategica dell’esecutivo ebraico, volta a cercare di chiudere, possibilmente una volta per tutte, la partita con l’Iran, vero e proprio nemico esistenziale, prima che la sua acquisizione di capacità nucleari possa cambiare a danno di Israele gli equilibri strategici regionali. Che l’allarme sul programma atomico non fosse l’unica spinta ad agire è peraltro testimoniato anche dal fatto che l’attacco sia arrivato quando ancora era in programma un incontro nell’ambito della trattativa con gli USA ad esso dedicata, in Oman. Segno che un ipotetico accordo, il quale avrebbe abbassato il livello di tensione tra Iran e paesi occidentali, e di fatto impedito a Israele un’azione militare risolutiva, non era troppo gradito. Del resto, per tranquillizzare chi invoca il diritto internazionale, la guerra tra Gerusalemme e Teheran covava sotto le ceneri da anni, con gli Ayatollah che da qualche decennio finanziano e riforniscono organizzazioni che praticano la guerriglia e il terrorismo contro Israele, ricambiati da implacabili periodici attacchi mirati ed esecuzioni di alti ufficiali da parte dello stato ebraico, sempre più frequenti dopo l’esplosione del bubbone siriano. Come risponde Robert Kaplan alla Stampa, “qui è in gioco la sopravvivenza degli stati” e pensare in termini di diritto internazionale “è un lusso che Israele non ha”. E’ innegabile, ad ogni modo, come il 7 ottobre abbia cambiato molte cose, forse in modo opposto a quel che immaginava chi lo ha messo in atto. E’ altrettanto innegabile che la guerra in corso, per Israele, può terminare, come detto, in un grande successo, ma anche trasformarsi in un tragico azzardo.
Se la strategia del governo israeliano appare abbastanza chiara, lo stesso non si può dire di un altro grande attore, tuttora alla finestra: gli USA e il loro comandante in capo, Donald Trump. La nuova amministrazione aveva inaugurato un processo negoziale con la Repubblica Islamica ad aprile, allo scopo di giungere ad un accordo sul programma nucleare di Teheran, sette anni dopo la clamorosa denuncia del trattato JPCOA, concluso da Barack Obama nel 2015, da parte del medesimo presidente Trump (si sarà in cuor suo pentito?), durante il suo primo mandato. Per quanto il nuovo negoziato stesse procedendo con difficoltà, date le ritrosie degli iraniani a rinunciare all’arricchimento dell’uranio, un ulteriore incontro era previsto in Oman per domenica 15 giugno. Desta notevole perplessità, in tale contesto, il sostanziale via libera concesso dalla Casa Bianca a Netanyahu per un’azione militare cosi imponente ed estesa contro l’Iran. Ancora maggiore perplessità lasciano i continui e contraddittori messaggi inviati, via social network, dal presidente americano, ora tesi ad ammonire Israele a non sferrare l’attacco, ora invece inneggianti ai successi militari dello stato ebraico, fino a giungere esplicitamente a minacciare la distruzione del paese persiano e la morte della Guida Suprema Khamenei. In quello che sembrava a tutti gli effetti un delirio di onnipotenza e narcisismo (“Potrei bombardare l’Iran, o potrei non farlo”), misto a smania di partecipare alla dimostrazione di forza fin qui condotta dagli israeliani, Trump è arrivato a proclamare il controllo dei cieli dell’Iran (sic!), usando la prima persona plurale. Tale comportamento non deve in realtà stupire più di tanto, data l’imprevedibilità e l’erraticità del personaggio, ma è evidente come il tam-tam mediatico degli ultimi giorni riguardo un possibile coinvolgimento diretto degli USA nella guerra, e il rovente dibattito in merito ad esso, esploso nella compagine che sostiene l’amministrazione, non contribuiscono a conferire un’immagine di affidabilità e autorevolezza alla superpotenza. Tanto più che, dopo un paio di giorni in cui l’intervento sembrava imminente, ora la decisione pare essere stata apparentemente rimandata di due settimane (il tempo necessario a che il conflitto termini da sé?).
Anche ipotizzando l’eventualità dell’utilizzo della tattica del good cop-bad coop, per spingere Teheran a capitolare a livello diplomatico, è difficile non riscontrare come i rischi di tale approccio superino le opportunità in presenza di trattative, che non sarebbero certo andate avanti in eterno, ma erano in corso con un incontro programmato. Allo stato dei fatti precedente il 13 giugno, una eventuale incapacità di convincere Netanyahu a desistere dall’azione militare denoterebbe debolezza, la non volontà di farlo rasenterebbe ľautolesionismo. Comunque sia andata, ora Trump si ritrova da una parte tirato per la giacca da Israele, che degli USA e delle sue potenti bombe ha bisogno per concludere il conflitto in maniera vittoriosa, dall’altra trattenuto dai timori di imbarcarsi in una campagna militare dopo aver proclamato per anni la fine degli interventi all’estero. Mentre a Washington e sui media infuria la contesa tra conservatori e repubblicani tradizionali, favorevoli all’intervento, e zoccolo duro del movimento MAGA, apertamente contrario, nello studio ovale il presidente dovrà decidere se far pesare maggiormente l’opportunità di conseguire un successo militare storico e decisivo, capace di glorificare la sua figura e riconferire forza e leadership agli USA, o le pericolose conseguenze con alta probabilità derivanti dal coinvolgimento americano nella guerra, a cominciare, come già detto, dal possibile blocco dello stretto di Hormuz, per finire con le plausibili rappresaglie missilistiche di Teheran contro le numerose basi di Washington nei paesi vicini. I dubbi nella testa del presidente, a quanto si apprende, sono però dovuti anche alla difficoltà ad ottenere dai suoi generali l’assicurazione che un’eventuale attacco a Fordow sia coronato da successo certo. L’impressione che lascia l’operato dell’amministrazione Trump, ad ogni modo, è di incapacità di garantire leadership e controllo, nei confronti di un junior partner, come lsraele, ma anche rispetto alle proprie azioni. Per un presidente prodigo di proclami sulla sua capacità di far cessare tutte le guerre nel giro di pochissimo tempo (un giorno per quella in Ucraina), grazie alla sua presunta autorevolezza, non è un grande inizio di mandato.
Mentre il Medio Oriente, a regolari intervalli, continua ad andare a fuoco, non si può fare a meno di constatare, una volta ancora, l’inconsistenza e la quasi totale irrilevanza degli europei. Le reazioni ufficiali dei principali governi e dell’UE non sono andate oltre le dichiarazioni di principio tese a sostenere il diritto di difesa di Israele e a ricordare che all’Iran non deve essere permesso di dotarsi di armi nucleari. Un sostanziale via libera, a posteriori, a Netanyahu, accompagnato dal tentativo diplomatico di far avvicinare le posizioni di Teheran a quelle degli USA, nell’ottica di una ripresa del negoziato in Oman, il quale però difficilmente potrà essere condotto sotto le bombe israeliane, supportate, in vari modi, proprio da Washington. Del resto, anche nel vecchio continente l’atomica persiana fa paura, e in molti pensano quel che il cancelliere tedesco Merz ha apertamente affermato, ovvero che “Israele sta facendo il lavoro sporco per tutti noi”. Le capacità di influire sullo stato ebraico, da parte dell’Unione e delle capitali europee, rimangono invece pressoché nulle, date le deboli leve a disposizione di queste nel rapporto con Gerusalemme, e l’evidente fastidio del governo israeliano per le critiche ricevute in merito alle operazioni militari a Gaza e in Libano successive al 7 ottobre, peraltro mai fatte seguire da fatti concreti, come da nostra migliore tradizione. La distanza tra Europa e Israele, ormai, si manifesta in misura evidente, ancor più osservando le reazioni delle opinioni pubbliche, sul piano politico, ma anche probabilmente su quello antropologico, con gli europei che, come dice ancora Robert Kaplan, “dalla fine della seconda guerra mondiale hanno nutrito risentimento verso Israele per la determinazione di quest’ultimo di volersi difendere militarmente … ed è una necessità, questa di difendersi con le armi, che i politici europei non hanno”.
Il rapporto delle società europee con il problema della guerra e dell’uso della forza (un contributo utile da leggere sul tema è “Il posto della guerra e il costo della libertà”, di Vittorio Emanuele Parsi, Bompiani, 2022) ritorna inevitabilmente ad ogni scontro armato che esplode ai nostri confini, e pare continuare a divergere dalla realtà dello scenario internazionale, se perfino un debole tentativo di coordinamento e facilitazione di investimenti nel settore difesa da parte della Commissione Europea, finalizzato ad ammodernare e rimpolpare organici ed equipaggiamenti caratterizzati da oltre trent’anni di investimenti ridotti, è stato tacciato di militarismo e tendenze guerrafondaie. Sfortunatamente, invece, il conflitto tra Israele e Iran, come altri recentemente divampati anche più vicino a noi, dimostra ulteriormente che, nelle relazioni internazionali, chi combatte, anche se è un medio attore regionale o locale, è in grado di “usare” il proprio senior partner, pur se superpotenza mondiale. Nel caso in questione, come scrive Federico Petroni su Limes, “l’America finisce per farsi usare”, perché “questo accade quando a combattere non sei tu ma deleghi” e “chi versa il sangue prevale su chi gli passa le armi”. Tali lezioni dovrebbero essere apprese, non per mettersi a militarizzare la società e andare a combattere guerre in giro per il mondo ad ogni occasione, come vorrebbe far credere qualcuno, ma per essere preparati e abili a difendere le nostre libertà, e anche i nostri interessi, quando necessario, in un sistema internazionale che è sempre più afflitto da instabilità e incertezza, e in cui non sempre le soluzioni diplomatiche si dimostrano sufficienti. Altrimenti, le nostre invocazioni alle de-escalation e alla pace, indirizzate a Teheran, come anche a Gerusalemme o Washington, continueranno a essere considerate solo stanche prediche o voci di sottofondo.
Devi fare login per commentare
Accedi