
Geopolitica
La Nuova Yalta: elezioni come frontiere della geopolitica
Senza un nuovo ordine mondiale, le elezioni saranno il riflesso fedele di una geopolitica mascherata da democrazia. E noi, popoli europei, saremo poco più che spettatori di una nuova Yalta che si gioca non più sulle mappe, ma sugli algoritmi, sugli influencer, sulle urne
“Se votare facesse qualche differenza, non ce lo lascerebbero fare.” Una citazione che troppo spesso, e in maniera del tutto errata, viene attribuita allo scrittore e umorista statunitense Mark Twain. In verità la frase in questione sembra essere senza paternità, calata dall’alto da chissà chi come una spada di Damocle sulle moderne nazioni occidentali, perennemente asserragliate nei loro particolarismi e campanilismi, mentre si scoprono improvvisamente coese e, al tempo stesso, divise alla vigilia delle elezioni politiche.
Una citazione senza paternità, appunto, ma con un gran fondo di verità. Eppure quello che abbiamo assistito in Romania e Polonia è la prova generale che un accordo tra USA e Russia si può dire quasi fatto. Bisognerà capire a chi verrà assegnata l’Ucraina. Le elezioni sono una cosa troppo seria per essere lasciate ai semplici cittadini. In esse entrano in gioco fattori esterni ed influenze internazionali. Fu così per le elezioni in Italia del 1948 e continua ad esserlo oggi.
Le elezioni polacche vinte da un candidato euroscettico e fortemente ostile ai continui aiuti all’Ucraina soddisfano Mosca, le elezioni romene, con un candidato moderatamente europeista, soddisfano gli USA. Quello che stiamo assistendo in Europa dell’Est e — presumibilmente — anche in quella occidentale, è la nuova Yalta, la nuova suddivisione per aree di influenza. Ora resta da assegnare prossimamente l’Ucraina e l’Ungheria, che sono le prossime nazioni da collocare nella sfera statunitense o russa. Dobbiamo essere consapevoli di questo e non fingere che vi siano in gioco chissà quali ideali: semplicemente dobbiamo prendere coscienza e accettare questa situazione.
Una frase apparentemente disillusa come quella sull’inutilità del voto ci costringe oggi a fare i conti con un quadro geopolitico che sempre più condiziona l’autonomia dei popoli, i quali credono di esercitare liberamente la propria sovranità, quando in realtà i loro comportamenti elettorali sono attentamente studiati, previsti, anticipati, indirizzati e perfino manipolati da poteri esterni. Non si tratta di un’illazione, ma di una realtà ormai ampiamente documentata.
In Romania, ad esempio, le elezioni presidenziali del 2024 sono state segnate da un clamoroso colpo di scena: la Corte Costituzionale ha annullato il primo turno a causa di interferenze digitali provenienti dall’area russa. Il candidato outsider, Călin Georgescu, è salito nei sondaggi a ritmi vertiginosi, grazie a una campagna virale diffusa su TikTok da migliaia di account sospetti, con contenuti capaci di intercettare il malcontento giovanile e trasformarlo in consenso politico. Un caso eclatante che ha costretto le istituzioni europee ad aprire un’indagine formale, mostrando quanto la battaglia per la conquista delle menti si stia ormai combattendo sulle piattaforme social. Parallelamente, in Polonia, è stata istituita una Commissione parlamentare per fare luce su quindici anni di presunte influenze russe nella vita politica del Paese.
Un atto simbolico ma anche sostanziale, che evidenzia come la coscienza di queste dinamiche stia crescendo. Non è più tempo di ignorare o minimizzare: il voto, oggi, è un campo di battaglia in cui si fronteggiano le grandi potenze mondiali, in particolare Stati Uniti e Russia. E proprio come nella Yalta del 1945, dove si spartivano territori con linee su una mappa, ora si spartiscono elettorati, sfere culturali, narrative identitarie. L’Ucraina è l’epicentro visibile di questo nuovo scontro: invasa da Mosca, sostenuta da Washington e dall’Unione Europea, devastata da anni di guerra ma più che mai al centro di un equilibrio che nessuno può ignorare. Chi avrà l’Ucraina dalla propria parte avrà la chiave del futuro assetto europeo.
Ma la questione non si limita al territorio ucraino: l’intera fascia orientale del continente è divenuta oggetto di una progressiva ricolonizzazione dell’immaginario, della politica, dell’informazione. La Romania, grazie alla sua posizione sul Mar Nero e al ruolo chiave nei rapporti con Moldavia e Ucraina, rappresenta una pedina strategica tanto quanto la Polonia, che resta una diga politica e militare contro l’espansione russa. In queste nazioni, la democrazia viene messa alla prova non tanto nella sua forma esteriore, quanto nella sua sostanza: i cittadini votano, ma chi costruisce le condizioni cognitive, psicologiche, informative di quel voto?
Chi orienta le paure, le speranze, i nemici e i sogni delle popolazioni? Sempre più spesso, questi elementi vengono decisi altrove: nei laboratori di propaganda, nei centri di potere strategico, nei server di campagne digitali invisibili. L’Unione Europea ha iniziato ad affrontare questo tema: il Consiglio Europeo parla ormai esplicitamente di “resilienza democratica”, un termine che certifica come le democrazie non siano più strutture stabili, ma sistemi vulnerabili, che necessitano di protezione da attacchi esterni. L’81% dei cittadini europei, secondo l’Eurobarometro 2023, considera l’ingerenza straniera nei processi democratici una minaccia seria, e chiede ai propri governi di agire. Ma è sufficiente questa consapevolezza? La domanda resta aperta. Anche perché, come dimostra la storia, i meccanismi di influenza non sono un’esclusiva delle autocrazie.
Gli Stati Uniti hanno ampiamente utilizzato, fin dai tempi della Guerra Fredda, strumenti di penetrazione culturale, finanziaria e politica per orientare le elezioni nei Paesi alleati o strategici. Il caso delle elezioni italiane del 1948 è l’esempio più noto, ma oggi le modalità sono molto più raffinate: dalla creazione di ONG che promuovono determinati modelli di governance, fino alla sponsorizzazione di contenuti mediatici che favoriscono l’uno o l’altro schieramento. La posta in gioco è troppo alta per lasciare che i popoli decidano da soli, in modo realmente autonomo. Questo non significa negare la validità del processo democratico, ma comprenderne i limiti.
Significa accettare che il voto è oggi un meccanismo non solo politico, ma geopolitico. Un momento in cui si manifestano gli effetti di strategie globali, influenze informatiche, ingegnerie sociali. E allora è giusto chiedersi se le prossime elezioni in Ungheria, Paese membro dell’UE ma sempre più vicino alla narrativa russa, non diventino un altro capitolo di questa nuova spartizione. Viktor Orbán ha saputo mantenere un delicato equilibrio, ma l’Unione Europea potrebbe presto decidere di forzare la mano, cercando un cambio politico che riavvicini Budapest alla linea atlantista. Non sarebbe la prima volta che l’Occidente si muove con tutti i mezzi, anche i più sottili, per ottenere risultati graditi. E così, mentre si prepara questa nuova ridefinizione delle aree di influenza, è urgente smettere di fingere che in gioco ci siano solo “ideali” o “visioni del mondo”.
Certo, queste componenti esistono, ma sono sovrastrutture. A muovere davvero le leve della storia sono gli interessi strategici: gas, rotte, territori, stabilità o destabilizzazione. Tutto il resto — le parole, le dichiarazioni, gli appelli alla coscienza democratica — fa parte della scenografia. Questo non implica abbandonare il valore delle elezioni, ma capirne la reale funzione nel mondo contemporaneo. Chi si illude che il voto sia sempre l’espressione pura della volontà popolare si espone alla manipolazione. Chi invece analizza con lucidità i contesti, le influenze, le dinamiche profonde, può forse iniziare a costruire una risposta. Non una rinuncia alla democrazia, ma una sua trasformazione consapevole, resiliente, trasparente. Per farlo, occorre più cultura, più educazione civica, più giornalismo critico, più strumenti di verifica. Occorre che i cittadini smettano di essere semplici terminali di campagne elettorali e tornino ad essere attori reali, consapevoli, capaci di riconoscere chi agisce dietro le quinte. Solo allora si potrà tornare a credere davvero che votare faccia la differenza.
Fino a quel momento, le elezioni saranno il riflesso fedele di una geopolitica mascherata da democrazia. E noi, popoli europei, saremo poco più che spettatori di una nuova Yalta che si gioca non più sulle mappe, ma sugli algoritmi, sugli influencer, sulle urne.
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