Geopolitica
“La pace? Bla bla bla”. L’Acquario di Kramatorsk, oasi di calma a 20 chilometri dal fronte
Nel cuore del Donbas, Roman e Iryna hanno realizzato un sogno: aprire un acquario come a Genova. E nonostante la pioggia di droni che si abbatte ogni giorno sulla città non hanno intenzione di rinunciarci: «Qui trovano pace bambini e soldati. La bellezza cura»
KRAMATORSK (DONBASS, UCRAINA) – La manta fa una piccola capriola, si gira e poi riprende a nuotare pigramente. La guardo e per un attimo mi chiedo se è tutto soltanto un sogno. Sono in Donbass, a Kramatorsk. E sto seduto su una poltroncina stilosa, anni Settanta, dentro un acquario. No, non un negozio di pesci. Proprio un acquario, un posto cioè dove i pesci mica li compri; li vieni a guardare. E basta.
I proprietari, Iryna Artemova e suo marito Roman Dubinin, sono in ritardo. Per fortuna mi ha fatto entrare una commessa. E così ora sto qui – come ipnotizzato – a fissare la manta. Fuori sentivo esplosioni basse e cupe: probabilmente colpi di artiglieria. Qui sento solo il rumore dell’acqua che gorgoglia. Fuori: il grigio e il freddo dell’inverno. Qui: pesci tropicali; calduccio dei termo. E in una vetrinetta, altri pesci, ma peluche, che devono fare impazzire i bambini che vengono a visitare sto acquario e pure i genitori che non glieli vogliono comprare.
Lo schiocco della porta mi fa sobbalzare. É Iryna.
Parto subito con un complimento per la loro “resistenza”: tenere l’acquario aperto, qui, oggi, non deve essere impresa facile. «Sì, è così – mi dice lei, l’unica dei due che parla inglese -. Ci sono black out di continuo e abbiamo dovuto comprare dei generatori apposta. E c’è pure il coprifuoco: dalle 9 di sera alle 5 del mattino non possiamo uscire di casa: se manca la corrente non possiamo nemmeno venire ad accenderli, i generatori. Come facciamo? Come possiamo. A volte rimaniamo anche qui a dormire, pur di non far morire dei pesci, come è già successo».
Da Genova a Kramatorsk
Strette di mano un po’ esitanti; occhi che si incontrano a fatica; due chiacchiere sul nulla per rompere il ghiaccio: l’intervista parte con una buona dose di imbarazzo. Come mille milioni di altre volte. Ma mi rendo subito conto che la loro non è una storia come mille milioni di altre. E che sì, il posto in cui mi trovo è proprio un sogno: il sogno di un bambino nato nel bel mezzo della steppa ucraina, ma innamorato del mare.

Roman ha avuto il suo primo acquario a 10 anni. Poi ha studiato da cuoco; è diventato designer di interni; ha sposato Iryna e assieme hanno avuto una figlia che oggi studia a Kyiv, all’università. La vita insomma è andata avanti. Ma la passione per i pesci è rimasta. Finché un giorno, durante una vacanza in Italia, quella passione non ha trovato la strada per diventare un progetto imprenditoriale.
«Era il 2018 – racconta Iryna -. Siamo andati a Genova, al famoso acquario e siamo rimasti impressionati. Roman ha cominciato a pensare seriamente di costruire qualcosa di simile anche nella nostra piccola Kramatorsk: molti bambini, qui, non hanno proprio la possibilità di andare in vacanza all’estero o comunque al mare a vedere le meraviglie che ci sono sott’acqua».
Da bravo designer di interni, il marito di Iryna si è messo subito al lavoro e ha buttato giù i primi schizzi. Due anni dopo, a settembre 2020, ecco l’acquario di Kramatorsk: una serie di sale e di vasche capaci di ospitare più o meno 300 pesci: un viaggio negli “abissi” marini, in via Akademichna, in pieno centro città, al prezzo di un caffé: 50 grivne, più o meno un euro.
E cinque anni fa, anche dal punto di vista economico, poteva avere un senso. Ma ora? Le persone continuano a venire? «Certo – mi risponde Iryna -. Bambini, ma non solo. Un soldato, una volta, mi ha detto: ero distrutto, ma dopo un po’ di tempio qui, mi sento già meglio. Vengono perché questa è una isola di calma: puoi rilassarti, goderti un momento di normalità e non pensare alla guerra. Guardare i pesci, godere della loro bellezza fa bene: i cinesi gli hanno dato anche un nome: la chiamano “acquario terapia”: è un po’ come meditare. Noi, però, non chiediamo più i soldi del biglietto, perché di soldi in giro ce n’è pochi. Se qualcuno vuole fare un’offerta, bene. Se no, può entrare e godersi un po’ di calma lo stesso. Per fortuna abbiamo un altro negozio che vende integratori sportivi che funziona benissimo».
E di “acquario terapia”, o comunque di una buona dose di calma, a Kramatorsk, c’è proprio bisogno.
«Chi sarà il prossimo?»
Sono arrivato in Ucraina lunedì 24 novembre.
Da allora ho cominciato a organizzare il mio viaggio per arrivare qui; a leggere il giornale della città, il Kramatorsk Post; a prendere appunti. Volevo capire quanto frequenti erano i bombardamenti, quanto pericoloso sarebbe stato per me passare del tempo in città.
E così su un file di Word annotavo:
Il 26 sangue a Kramatorsk, ma anche in altri villaggi del Donetsk, Torske e Iverske: 4 feriti. 28 novembre: due case rimangono danneggiate. Il 1^ di dicembre un altro attacco ad un palazzo residenziale e altri quattro feriti ancora. 2 dicembre, giorno nero: tre attacchi tra le 2 e le sei del pomeriggio: 1 morto e cinque feriti. Anzi due morti: una donna è stata trovata soltanto dopo molte ore, sepolta sotto le macerie. Il 3 dicembre all’ora di cena bombe plananti hanno danneggiato 12 palazzi e ferito tre persone. 5 dicembre: un drone all’una di notte centra un edificio di formazione extrascolastica, dentro però a quell’ora non c’era per fortuna nessuno; alle 8 del mattino è una stazione di servizio a finire nel mirino: un benzinaio rimane ferito. Il 7 dicembre altri droni piovono sulla città nel cuore della notte e poi all’ora di pranzo: edifici danneggiati; per fortuna nessuna vittima. Il giorno dopo un’altra pioggia di droni: alle 4 del pomeriggio, alle 8, alle 9, alle 10. Bilancio finale: sei feriti.
L’8 dicembre ho chiuso il file per non riaprilo più. Tanto avevo capito benissimo. I russi bombardano Kramatorsk – non solo le posizioni dei soldati, ma anche case, negozi, scuole, insomma qualsiasi cosa – praticamente ogni giorno.
Non è sempre stato così. Iryna non riesce a dirmi con precisione quando le cose sono cambiate: «Se vivi qui, non so bene come spiegarti, ma non ti rendi ben conto. Però, ecco, fino più o meno a un anno fa, la città veniva colpita magari una volta al mese. Poi una volta a settimana. Ora tutti i giorni un missile o un drone colpisce un palazzo. É successo ieri, e il giorno prima e il giorno prima ancora. E tu cominci a chiederti? Chi sarà il prossimo? Forse, casa di un mio amico? O la mia?».
Il fonte sempre più vicino
Cos’è cambiato? Niente. E tutto. Niente: perché la guerra qui in Donbas, che è il cuore di questo conflitto, c’è da più di 10 anni, cioè da quando paramilitari filorussi si sono impadroniti di alcune città. Tutto: perché negli ultimi 4 anni – cioè da quando nel 2022 è iniziata la vera e propria invasione – il fronte ha cominciato a scivolare lentamente, ma inesorabilmente da Est verso Ovest. Bakhmut e Avdiivka sono nomi di paesotti che in Italia significano nulla. Ma l’esercito di Kyiv li aveva trasformati in veri e propri bastioni a difesa di Kramatorsk, il centro politico e amministrativo del pezzo di Donbas rimasto in mani ucraine. E quei bastioni sono caduti. Ora si combatte ancora più vicino: nei dintorni di Pokrovsk e a Kostiantynivka, che sono ormai ridotte in macerie. Alcune parti della città si trovano ormai ad una ventina di chilometri dal fronte.

Roman e Iryna hanno, ovvio, ben presente la situazione. Iryna, poi, è proprio di Kostiantynivka: «Là – mi dice – sono rimasti solo anziani che non avevano nessun altro posto dove andare e uomini che non hanno il coraggio di combattere (e che magari si nascondono per paura di essere arruolati, ndr). Tutti i miei parenti se ne sono andati mesi fa. Non c’è elettricità, non c’è gas, non c’è acqua: non si può avere una vita normale».
Chi va e chi resta
E la vita a Kramatorsk, com’è? Iryna sospira: «Difficile. Spaventosa. Molte persone se ne stanno andando. Lo vediamo succedere sotto i nostri occhi: vengono da noi per lasciarci i loro animali: pesci, ma non solo; anche uccellini, visto che abbiamo delle voliere». E voi perché non ve ne andate? Iryna e Roman scambiano due parole e uno sguardo di intesa: «Perché amiamo la nostra casa, il nostro acquario. Certo se le cose dovessero precipitare, abbiamo un piano B: siamo pronti a portare via i pesci, anche se non sappiamo bene come. E nostra figlia vive e studia a Kyiv, quindi potremmo andare a stare da lei. Ma ci ritroveremmo senza niente: senza negozio, senza appartamento; nulla». Iryna, a 42 anni e Roman, a 48 dovrebbero ricominciare tutto da zero. «Ma se i russi – aggiunge Iryna con durezza, torcendosi le mani – dovessero prendere la città, noi non resteremmo mai qui. Mai. Mia madre è russa di origine, mia nonna vive là. Conosco la Russia e non voglio viverci. Per cui ce ne andremo prima».
Per loro, nonostante questi mesi difficili, però non tutto è perduto: «Noi – mi dice – abbiamo ancora speranza. Ma dobbiamo essere forti e aiutarci a vicenda. Dobbiamo combattere e vincere».
«Non siamo una città fantasma»
Scuole a asili son tutti chiusi. Nessun treno parte o arriva più: la stazione non funziona da mesi. Anche gli hotel, in città, non aprono più da quando sono diventati pure loro un obiettivo degli attacchi dei russi, che – poco più di un anno fa – ne hanno mezzo demolito uno, uccidendo una persona e ferendone altre due. Ma quando chiedo se Kramatorsk è ormai una città fantasma, Iryna scuote la testa: «Qui c’erano aziende che hanno trasferito la loro produzione altrove, è vero. Ma tante persone sono ancora al lavoro; e molti negozi, bar, ristoranti sono ancora aperti».
Già, i negozi. Camminando per la lunghissima via Akademichna, che è quella dove si trova l’acquario e che è anche la strada principale di Kramatorsk, l’ho notato anch’io: le vetrine sono quasi tutte ancora accese e pure addobbate per Natale. Anche un piccolo centro commerciale è regolarmente aperto. Dentro un po’ di tutto: gioielleria, orologi, valigie, vestiti, integratori per palestrati o aspiranti tali. Non manca nulla, nemmeno la ragazza che ti fa provare i profumi con tanto di classico cartoncino.
Quel che scarseggia, in giro, sono le persone, però. Poche auto per le strade; passanti forse ancora meno. E buona parte di quelli che vedo far compere o passeggiare in realtà sono soldati: molto probabilmente uomini impegnati su questo tratto di fronte che si godono qualche giorno di libera uscita. Del resto i numeri, anche se non proprio ufficiali, sono spietati. Prima dell’inizio dell’invasione – insomma fino a fine 2021 – i residenti a Kramatorsk erano più o meno 150mila; quindi parliamo di una città grande come Parma. Oggi, però, secondo alcune stime, non dovrebbero esserci rimaste più di 50mila persone. La mancanza di due abitanti su tre si nota anche nei parchi. Sono andato a farmi una passeggiata nel più grande della città – parco Yubileyny, ben 100 ettari -, incrociando più corvi che persone.

Palestre, sushi e tatuaggi
Ma Iryna insiste: Kramatorsk non si è ancora spenta. E per dimostrarmelo, mi accompagna a fare un piccolo tour della città. Saltiamo in macchina. Mentre scivoliamo lungo strade senza traffico, Iryna mi indica le botteghe, tante, che ancora funzionano. Trovare un posto per un taglio di capelli, un tatuaggio, un caffè o una pizza in quest’angolo di Donbas, in effetti, non è decisamente un problema. C’è pure il sushi. «E quella là – mi fa notare Iryna – invece è una palestra». Una palestra? «Sì, ce ne sono almeno cinque ancora aperte. Fa bene alla salute della tua testa, perché la svuota. Quindi tantissimi ci vanno. Ma nessuno si fa più pubblicità per timore che i russi, vedendo un posto affollato, lo bombardino».
Per non impazzire
Il tour di Kramatorsk prosegue con la tappa allo studio di un loro amico: si chiama Anton Motornyi, ha 42, fa il dentista. Quando lo andiamo a trovare, Anton è al lavoro. Ma trova comunque qualche minuto per farmi visitare il suo piccolo regno: una saletta per l’igiene dentale; un’altra apposta per le operazioni più complicate; un laboratorio ad hoc per sterilizzare gli strumenti. Tutta la strumentazione ha l’aria di essere nuova di pacca, o quasi. «Se c’è lavoro? Ma certo – mi risponde lui -. Faccio estrazioni, impianti, rigenerazioni mascellari. Kramatorsk è una grande città: è una città viva, una città di eroi».

Quando risaliamo in macchina Iryna mi spiega che chi come lei è rimasto, per quello che può, fa una vita il più normale possibile: «Certo che i russi ci bombardano tutti i giorni. Ma continuiamo a prenderci cura di noi stessi, ad allenarci, a mangiare fuori o portare a spasso il cane. É la nostra ricetta per non impazzire». Tra le cose normali da fare, in questi giorni, c’è anche quella di prepararsi per le feste. E infatti lungo la strada troviamo anche un capannone pieno zeppo di alberi di Natale. Ci fermiamo giusto per fare due foto e poi via di nuovo.
«La pace? Tutto un bla-bla-bla»
Mentre il nostro viaggio prosegue, Roman e Iryna però mi indicano anche tanti palazzi colpiti dai bombardamenti: passiamo a fianco a un commissariato di polizia, un asilo, il tribunale: tutti distrutti. E ripensando alla guerra che continua senza sosta, mi viene in mente di chiedere cosa pensino dei colloqui di pace. Certo, non sono politici. Ma la cosa li riguarda eccome visto che la Russia, per deporre le armi, ha chiesto e richiesto di avere tutto il Donbas, compresa la loro città. A Iryna scappa una risatina amara: «Ma è tutto un bla-bla-bla, dai! Trump è dall’inizio dell’anno che dice che siamo vicini ad un accordo, ma non succede mai niente. E comunque Putin non si fermerà. Lui non si accontenterà del Donbas; vuole anche anche Odessa, Zaporizhzhia, Kharkiv. Anzi, vuole tutta l’Ucraina. Sta solo mentendo».
Buio
Sono ormai le cinque e Kramatorsk è sprofondata in un buio a cui io non sono più abituato. Il sole cala presto, prima che in Italia. E soprattutto non c’è un lampione acceso. «Così tutti a quest’ora se ne vanno a casa», mi spiega Iryna. Il giro insomma è finito. L’ultima fermata la facciamo dove il tour era cominciato: in via Akademichna, vicino alla piazza del municipio: i bombardamenti non hanno risparmiato neppure la “casa” del sindaco, facendo saltare per aria tutte le finestre. Qui i soldati hanno già scavato trincee quasi ad ogni angolo di strada: ogni volta che le guardo, ci vedo un triste presagio.

É tempo di salutarci. Però, chiedo a Iryna e Roman ancora una cosa: se la guerra dovesse andare avanti, se i russi dovessero avanzare ancora, ecco loro quando diranno basta e si decideranno a fare le valigie? «Se il governo darà ordine di evacuare tutti i bambini, sapremo che è finita. Ma fino ad allora resteremo qui. Perché il nostro acquario è come un simbolo: molti che sono andati via e ora vivono all’estero, co vedono attraverso i social, vedono che l’acquario resiste e pensano che resista anche la città. Per loro è importante. E lo è anche per noi». Kramatorsk non ha alzato bandiera bianca. O almeno non ancora. E neppure il suo acquario.




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