Geopolitica

L’Europa che difende: serve una intelligence federale e un esercito civile popolare

18 Novembre 2025

Il discorso pronunciato da Lorenzo Guerini coglie nel segno: l’Europa non può più rimandare il rafforzamento delle proprie capacità militari. La situazione geopolitica globale, sempre più instabile e segnata da competizioni tra potenze, conflitti ibridi, attacchi cibernetici e guerre per procura, mostra quanto sia fragile affidarsi esclusivamente alle garanzie esterne, per quanto solide possano essere state negli anni passati. Parlare di autonomia strategica, come ricorda Guerini, senza prevedere massicci investimenti, una pianificazione coordinata e la costruzione di strutture militari europee realmente operative, è poco più che un esercizio retorico.

Eppure, accanto alle considerazioni di Guerini — condivisibili e necessarie — esistono almeno due ulteriori dimensioni che devono entrare con forza nel dibattito sulla sicurezza europea. Due temi che, se ignorati, rischiano di rendere incompleto e inefficace qualsiasi progetto di difesa comune. Si tratta della creazione di un sistema europeo di intelligence realmente federale e dell’avvio di un modello di “difesa territoriale popolare” che renda i cittadini parte attiva del sistema di sicurezza collettiva, senza militarizzarli.

La prima grande questione è l’assenza di un’agenzia di intelligence europea unificata. Oggi l’Unione si affida a un mosaico complesso di servizi nazionali che cooperano più o meno intensamente, più o meno spontaneamente, ma che restano strutture indipendenti e spesso legate alle priorità politiche dei singoli governi. È un sistema che funziona fino a un certo punto, ma che diventa insufficiente di fronte a minacce globalizzate: terrorismo internazionale, reti criminali transfrontaliere, cyberwarfare, ingerenze straniere nei processi democratici, manipolazione dell’informazione.

L’Europa ha bisogno di qualcosa di diverso: non un coordinamento, non una piattaforma comune, ma un organismo federale vero e proprio — un “FBI europeo” per la sicurezza interna e una “CIA europea” per l’estero — con poteri autonomi di analisi, raccolta dati, operazioni e contrasto. Le agenzie nazionali rimarrebbero attori fondamentali, ma diventerebbero terminali territoriali di una strategia superiore e condivisa. Un’unica banca dati, protocolli comuni, catene di comando chiare, rapidità decisionale.

Le resistenze politiche esistono: la sicurezza è tradizionalmente il cuore della sovranità statale. Ma oggi, di fronte ad attori globali che operano su scala continentale, una sovranità frammentata è solo una sovranità indebolita. Un’intelligence europea non sarebbe una sottrazione di controllo agli Stati, bensì un potenziamento del controllo complessivo e una migliore protezione per tutti i cittadini europei.

Il secondo punto riguarda un aspetto spesso dimenticato: la sicurezza non è fatta solo di capacità militari convenzionali. Un’Europa più forte non è solo un’Europa con più investimenti in tecnologia, equipaggiamenti e strutture di comando, ma anche un’Europa con una popolazione preparata, informata, consapevole. Una popolazione capace di reagire in modo ordinato e sicuro in caso di crisi.

In questo senso, sarebbe necessario pensare alla creazione di una sorta di “esercito popolare non armato”, o meglio, di una difesa territoriale civile, basata su un servizio civile obbligatorio o volontario, non militare ma integrato nel sistema di protezione del territorio. Non si tratterebbe di armare i cittadini — cosa che andrebbe contro la tradizione pacifica europea — ma di costruire un tessuto civile resiliente.

Questo corpo civile potrebbe svolgere funzioni fondamentali in caso di emergenze: gestione della popolazione, comunicazioni, supporto logistico, soccorso, controllo del territorio, assistenza agli anziani, comunicazione in situazioni di blackout digitale, coordinamento locale. Verrebbe attivato in caso di crisi sotto la supervisione delle forze armate, ma senza alcun ruolo di combattimento.

Oggi strumenti come gli “IT-alert”, pur utili, non raggiungono tutti: gli anziani spesso non possiedono smartphone, molte persone non seguono canali ufficiali di informazione e i rischi di disinformazione sono elevati. Una popolazione istruita alla gestione delle emergenze — anche solo con corsi di base, sessioni informative, esercitazioni annuali — sarebbe un moltiplicatore di sicurezza.

Molti Paesi hanno già strutture simili: la Danimarca e la Finlandia con le loro difese civili, la Svizzera con la Protezione Civile, Israele con la Home Front Command, gli Stati Uniti con la FEMA. L’Europa, paradossalmente, è rimasta indietro proprio sul fronte in cui dovrebbe essere più forte: la partecipazione dei cittadini alla difesa non armata della collettività.

Rafforzare le capacità militari europee è fondamentale, ma non sufficiente. L’autonomia strategica richiede un’Europa capace di proteggersi, informarsi e reagire su più livelli. Un’Europa con un’intelligence unificata e potente, capace di prevenire rischi prima che diventino minacce. Un’Europa con una popolazione preparata, consapevole e coinvolta, capace di sostenere la sicurezza collettiva senza ricorrere alle armi.

Una difesa moderna non è solo esercito, non è solo tecnologia, non è solo geopolitica. È anche cultura civica, capacità di reazione sociale, resilienza comunitaria. Se l’Europa vuole davvero diventare un attore globale autonomo, deve costruire un sistema di sicurezza che non si limiti ai vertici, ma arrivi fino all’ultimo comune, al più piccolo quartiere, alla porta di ogni cittadino.

Solo così l’Europa sarà davvero pronta. Non solo a difendersi, ma a esistere come soggetto politico maturo, consapevole e responsabile nel mondo che cambia.

A livello nazionale, inoltre, c’è un ulteriore aspetto spesso sottovalutato: la capacità amministrativa durante le emergenze. Lo vediamo puntualmente in caso di calamità naturali: comuni colpiti da alluvioni, terremoti o incendi che, oltre alla gestione dell’emergenza, non riescono più a sostenere la normale vita amministrativa, che però rimane fondamentale per garantire assistenza, coordinamento, pagamenti, servizi essenziali. Se questo accade in situazioni limitate e localizzate, possiamo immaginare quanto sarebbe critico in caso di crisi più ampia o addirittura di guerra.

Per questo ogni ente locale — ogni comune, ogni provincia, ogni regione — dovrebbe poter contare su un gruppo di personale amministrativo interdisciplinare, formato e pronto a intervenire in caso di necessità. Un corpo “civile-amministrativo di emergenza” composto da dipendenti pubblici e volontari qualificati, istruiti nei vari settori degli assessorati: anagrafe, servizi sociali, logistica, contabilità, gestione dei fornitori, comunicazione istituzionale. Un personale capace di subentrare rapidamente quando l’amministrazione ordinaria non è più in grado di operare.

La resilienza di un Paese, infatti, non si misura solo nella capacità di difendersi fisicamente, ma anche nella sua abilità di continuare a funzionare, di mantenere attivi i servizi, di garantire continuità istituzionale. Una comunità che durante una crisi perde la propria capacità amministrativa diventa vulnerabile a disordine, sfiducia e paralisi. Ecco perché una vera difesa civile deve includere anche la componente gestionale e amministrativa: perché senza amministrazione non c’è né sicurezza, né solidarietà, né ricostruzione.

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