Geopolitica
L’Europa davanti al bivio: Berlino corre, Parigi vacilla, Washington cambia
C’è un dettaglio rivelatore nella polemica esplosa attorno a quella che definisco la “Dottrina Trump” che mirerebbe — secondo indiscrezioni poi smentite — ad allontanare l’Italia da Bruxelles: non importa tanto se quel documento esista davvero. Importa che un’idea del genere appaia plausibile. E lo è per una ragione semplice: l’Europa si sta risvegliando in un ordine che non controlla più, e in cui le vecchie certezze stanno evaporando una dopo l’altra.
Il punto, oggi, non è capire se Trump voglia usare i governi conservatori europei come “grimaldelli” contro l’Unione. Il punto è che l’Unione stessa è entrata in una fase di fragilità strutturale. Una fragilità che non nasce oltreoceano, ma nel cuore dell’Europa: nasce in Germania.
Nel silenzio generale, Berlino sta costruendo la più grande macchina militare europea del XXI secolo. La riforma Pistorius non è un riassetto tecnico: è un cambio di paradigma. Concentra il potere nelle mani del generale Breuer, crea dipartimenti per l’innovazione militare, rilancia la leva, investe centinaia di miliardi. La Germania si prepara apertamente a diventare kriegstüchtig, “pronta alla guerra”. È tutto scritto, tutto dichiarato — e tuttavia quasi nessuno in Europa sembra interrogarsi sulle conseguenze.
Angela Merkel, cresciuta nella DDR, conosceva la fragilità di certi equilibri. Il cancelliere Scholz, e ancor più un governo ridisegnato attorno alla nuova guida di Friedrich Merz, stanno invece seguendo un’altra strada: fare della Germania non solo il motore economico ma anche il perno militare dell’Europa. Una scelta legittima, certo. Ma che ridefinisce le gerarchie politiche del continente.
A questo quadro si somma un fatto altrettanto evidente: la Francia, storicamente il contrappeso alla potenza tedesca, attraversa la sua stagione più debole degli ultimi decenni. Instabilità parlamentare, logoramento dell’esecutivo, frammentazione politica interna: Parigi non è in grado, oggi, di frenare o bilanciare l’accelerazione tedesca. E un’Europa senza una Francia forte è un’Europa inevitabilmente sbilanciata.
Ecco perché molti Stati — dall’Italia alla Polonia, dall’Ungheria all’Austria — guardano a Bruxelles con crescente diffidenza. Il timore non è l’Unione in sé, ma un’Unione in cui la guida tedesca non trova più contrappesi reali.
In questo vuoto strategico, gli Stati Uniti si preparano ad affrontare la propria trasformazione. Un la presenza di Donald Trump alla Casa Bianca, con J.D. Vance come figura chiave, rappresenta un cambio di paradigma altrettanto radicale: meno impegno americano in Europa, più attenzione al quadrante indo-pacifico, rapporti bilaterali preferiti a quelli istituzionali con Bruxelles. Non si tratta di una politica “anti-UE” in senso ideologico: è la traduzione geopolitica di un pragmatismo americano che non considera più l’Europa il centro del mondo.
In questo schema, Paesi come Italia, Austria, Ungheria e Polonia non sarebbero strumenti, ma interlocutori privilegiati: Stati che, pur con differenze importanti, condividono una certa diffidenza verso le dinamiche centripete di Bruxelles e una maggiore sensibilità al tema della sovranità nazionale.
Che piaccia o no, la vera faglia geopolitica in Europa passa oggi per questi quattro governi. Sono loro — non la Francia indebolita, non la Commissione in cerca di una linea comune — a poter decidere se l’Europa seguirà la strada tedesca o sceglierà un equilibrio diverso, più multipolare, più aderente agli interessi dei singoli Stati.
Non è un caso che l’Italia sia diventata centrale in entrambi gli scenari: per Berlino, come eventuale sponda indispensabile per legittimare il nuovo corso militare europeo; per Washington, come possibile contrappeso alle ambizioni tedesche e come ponte tra l’Europa mediterranea e quella atlantica.
L’Europa è davanti alla scelta più importante dai tempi di Maastricht: accettare la nuova centralità della Germania come motore militare e politico, oppure sostenere un modello alternativo, fondato su una pluralità di centri decisionali — tra cui Roma potrebbe giocare un ruolo che non assume da decenni.
Non è una questione ideologica. È geopolitica pura. E le dinamiche degli ultimi due anni lo dimostrano: chi riempie il vuoto, guida il gioco.
Oggi il vuoto è reale, ed è fatto di una Francia debole, di un’America incerta, di un’Est Europa in allarme, di una Germania che accelera come non faceva dal 1945. Il resto del continente può soltanto scegliere se farsi trascinare o provare a orientare il corso degli eventi.
In questo scenario, la linea più “saggia” potrebbe davvero non essere quella di seguire Bruxelles nella sua inerzia, ma di sfruttare la storica occasione di ridisegnare gli equilibri continentali. E se ciò coinciderà con la “Dottrina Trump” o con la nascente visione geopolitica di JD Vance, sarà la storia, non i commentatori, a stabilirlo.
Una cosa è certa: l’Europa non può più permettersi di ignorare ciò che sta accadendo a Berlino. E l’Italia non può più permettersi di subire le scelte altrui. In tempi di trasformazioni epocali, chi non decide viene deciso.
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