Geopolitica
L’ultima guerra dei morti viventi: Israele, Iran ed Europa affogano nel loro passato
Donald Trump, nel bene e nel male, ha una qualità che pochi Capi di Stato contemporanei possono vantare: dice quello che pensa. I suoi modi sono spesso brutali, il linguaggio è sgraziato, talvolta persino volgare, ma il contenuto – tra il rumore e la provocazione – riflette spesso un disagio autentico, una consapevolezza amara che troppe democrazie sembrano aver smarrito.
La recente sfuriata di Trump su Israele e Iran – “In pratica abbiamo due paesi che combattono da così tanto tempo e così duramente che non sanno più cosa c… stanno facendo” – non è solo l’ennesimo colpo di teatro di un ex presidente. È, nel suo modo scomposto, un grido di frustrazione verso un mondo che sembra vivere incatenato al passato.
La reazione di Trump nasce dalla violazione del cessate il fuoco, da lui stesso annunciato, tra Iran e Israele. Ma il suo giudizio va oltre: coglie una verità più grande e inquietante. Europa, Medio Oriente, Russia, Iran, Israele – tutte realtà profondamente legate a schemi mentali antichi, a conflitti irrisolti, a un’idea della geopolitica che odora di polvere e libri di storia scolastica.
È come se intere nazioni si muovessero in un universo parallelo, governato non dalla realtà del presente o dalla visione del futuro, ma da rancori, paure, e ossessioni del passato.
Questo stesso meccanismo mentale era presente nella monarchia francese del XVIII secolo, quando appoggiò gli insorti americani nella guerra d’indipendenza contro l’Inghilterra. I francesi non lo fecero per convinzione ideale, ma perché pensavano si trattasse dell’ennesimo capitolo dell’eterna rivalità europea tra potenze.
Non capirono che stavano contribuendo alla nascita di un nuovo mondo, diverso, dinamico, che li avrebbe superati. Lo stesso errore si ripete oggi. Israele, Iran, Russia, Ucraina, ma anche gran parte dell’Europa, si comportano come se le guerre etniche, religiose o ideologiche fossero ancora strumenti efficaci per definire il proprio posto nel mondo.
In realtà, ciò a cui assistiamo è la fase finale dell’Occidente. Non una caduta improvvisa, ma un lento svanire, una stanchezza profonda che si manifesta proprio nell’incapacità di pensare in avanti. I conflitti che oggi bruciano – dall’Ucraina al Medio Oriente – sembrano tutti legati a un’epoca che non esiste più. Guerre di confine, di identità, di memoria. Gli attori principali – Israele e Iran, ma anche l’Europa e la Russia – sembrano più preoccupati di vendicare torti secolari che di costruire un futuro.
In questo contesto, Trump, per quanto controverso, rappresenta un’anomalia significativa. È espressione di un’America che ha forse capito di essere al tramonto, ma che almeno cerca nuove sfide, nuove rotte.
Talvolta in modo confuso, caotico, perfino pericoloso. Ma lo sforzo è quello di rompere lo schema, di uscire dal museo delle guerre ideologiche per entrare in un mondo dove il potere si misura in modo diverso. Trump non è un visionario, ma è il portavoce brutale di una nazione che, pur decadente, conserva ancora l’istinto del cambiamento.
L’Europa, invece, appare come una vecchia signora che rimpiange la giovinezza, vestita ancora con gli abiti di un tempo che non c’è più. Israele e Iran, a loro volta, combattono guerre simboliche in un teatro dove gli spettatori sono sempre meno interessati. E intanto, fuori da questa scena stantia, ci sono nuovi attori che si stanno preparando per il futuro: la Cina e l’Africa, in particolare.
La Cina ha già capito da tempo che il potere oggi si gioca su altri tavoli: tecnologia, infrastrutture, intelligenza artificiale, egemonia economica. Non ha bisogno di guerre ideologiche per espandersi. L’Africa, invece, pur con tutte le sue difficoltà, rappresenta la vera scommessa del XXI secolo. È lì che si sta costruendo un nuovo mondo, demograficamente giovane, digitalmente connesso, potenzialmente rivoluzionario. Chi saprà dialogare con l’Africa avrà un posto nel futuro. Chi invece continua a combattere le guerre del ‘900, è destinato all’irrilevanza.
Ecco perché le sfuriate di Trump, per quanto discutibili nei modi, colgono nel segno. Sono l’espressione, a volte inconsapevole, di un’esigenza che oggi l’Occidente rifiuta di ascoltare: quella di cambiare schema mentale.
Non si tratta solo di fermare una guerra o mediare una tregua. Si tratta di capire che il mondo non è più quello delle guerre fredde, delle alleanze ideologiche, dei confini etnici. Continuare a muoversi in quel paradigma è come danzare su un palcoscenico senza pubblico.
Il dramma è che né Israele, né Iran, né l’Europa sembrano disposti ad abbandonare la scena. Preferiscono il ruolo tragico di protagonisti decadenti piuttosto che l’umiltà di reinventarsi.
L’America – o almeno una parte di essa – ha il coraggio di riconoscere il declino e cercare un modo per sopravvivere. Questo, in fin dei conti, è il merito più grande – forse l’unico – di Donald Trump: costringerci, con i suoi toni eccessivi, a guardare in faccia una realtà che preferiremmo ignorare.
Perché il vero pericolo oggi non è la guerra in sé. È l’incapacità di pensare al futuro. È vivere in un passato che non ritornerà mai più.
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