Geopolitica

Tra Strategia e Conflitto: Le Lezioni dell’Attacco agli Obiettivi Nucleari in Iran

22 Giugno 2025

L’attacco aereo condotto dagli Stati Uniti contro obiettivi nucleari in Iran segna un punto di svolta nella sicurezza globale, indipendentemente dal bilancio immediato dell’operazione. Sebbene sia ancora incerto se i siti siano stati effettivamente distrutti o solo danneggiati, e nonostante i dubbi sulla reale impreparazione di Teheran rispetto ai movimenti militari americani, un dato appare evidente: il programma nucleare iraniano ha subito una significativa battuta d’arresto. Resta da capire se Teheran abbia avuto il tempo e le risorse per mettere al sicuro apparati sensibili e personale scientifico, ma è certo che l’azione ha comportato un’interruzione, almeno temporanea, della traiettoria tecnologica nucleare iraniana.

Il coinvolgimento diretto degli Stati Uniti, tuttavia, solleva questioni cruciali sul piano della governance internazionale e del rapporto tra potenze alleate. È difficile non cogliere l’impressione che Washington sia stata trascinata in un’escalation pianificata da Israele, il quale da due anni conduce una guerra mai formalmente dichiarata contro una pluralità di attori regionali, senza risultati tangibili.

Per l’amministrazione statunitense, non sostenere Israele e accettare una sua sconfitta politica e militare, sarebbe stato impossibile. Tel Aviv lo sapeva e per questo si è gettata in un avventura strategicamente senza senso ma che le consente di ottenere una vittoria tattica. L’intervento americano fornisce a Israele una narrazione di vittoria, necessaria per rafforzare il fronte interno e guadagnare tempo sul piano diplomatico.

Le implicazioni strategiche e simboliche sono più forti delle macerie fisiche. Questo episodio ci insegna, o meglio, ci ricorda alcune dinamiche che ormai caratterizzano il conflitto moderno, con implicazioni strategiche che andranno ben oltre l’Iran.

Innanzitutto, si può fare la guerra senza dichiararla. Un principio introdotto sul piano operativo in modo sistematico dalla Russia – basti pensare alla Crimea nel 2014 e alla successiva “Operazione Militare Speciale” – e che oggi è divenuto prassi corrente. Il corollario di questa tendenza è che se le guerre non si dichiarano formalmente, non si concludono mai del tutto: restano congelate, sospese, in attesa di nuove fiammate.

In secondo luogo, l’assenza di un obiettivo tattico chiaro non è più un ostacolo all’intervento armato. Si punta all’effetto domino, al disorientamento dell’avversario, contando sulla paura altrui più che su una pianificazione coerente. Il tutto alimentato dalla possibilità di giustificare l’azione con motivazioni costruite ad hoc: la veridicità dei casus belli è diventata talmente secondaria che non serve nemmeno fabbricare prove come con Saddam.

L’attacco americano racconta che se occorre, si può anche colpire un sito nucleare, senza remore, forzando limiti che fino a pochi anni fa sembravano invalicabili.

Il Trattato di Non Proliferazione è oggi percepito da molti paesi come superato. Il messaggio implicito è: meglio dotarsi della bomba atomica in autonomia, discretamente, come hanno fatto Pakistan, India, Israele e Corea del Nord. In questa prospettiva l’idea stessa di acquistare un ordigno nucleare, come suggerito da Alberto Forchielli, oggi non apparare come un’idea fantasiosa.

C’è poi un altro versante inquietante: la crescente accettazione della violenza contro i civili come strumento operativo. Non solo nei bombardamenti diretti, ma anche tramite campagne di eliminazione mirata contro categorie professionali, come gli scienziati nucleari. A ciò si aggiunge la possibilità di destabilizzare un intero paese attraverso operazioni cyber offensive – malware, sabotaggi finanziari, furti digitali – capaci di alimentare crisi sistemiche.

In questo quadro, Istanbul si afferma come il vero snodo della diplomazia contemporanea, mentre Bruxelles perde centralità. La Turchia, al di là delle sue ambiguità, ha un progetto strategico coerente e lo sta perseguendo nel Mediterraneo orientale, nell’Africa Occidentale e Orientale, in Siria, nel Caucaso, e nel Mar Nero.

In Europa, al contrario, assistiamo all’impotenza politica. I principali paesi del G7 – Francia, Germania, Italia e Regno Unito – hanno assunto posizioni divergenti, a volte incoerenti, senza alcuna capacità di incidere nel corso degli eventi.

L’Unione Europea si riduce così al suo ruolo burocratico, affidata a una Commissione carente sotto il profilo politico. La presenza di figure come Ursula von der Leyen o Kaja Kallas evidenzia un vuoto strategico senza precedenti: l’Europa assiste, non partecipa.

Israele, dopo anni di logoramento, ottiene oggi una vittoria politica e simbolica netta. In reazione al 7 ottobre in poi ha trascinato il Medio Oriente in un bagno di sangue, senza dichiarare formalmente guerra ad alcuno, ma colpendo ovunque. Si trova oggi circondato da stati falliti o in crisi strutturale: il Libano inesistente, la Siria frammentata, la Giordania sotto tutela internazionale, l’Egitto dipendente da Arabia Saudita e FMI. Il progetto della Grande Israele, che sembrava un’utopia nazionalista, oggi trova spazio nelle condizioni geopolitiche, ma i suoi effetti a lungo termine potrebbero rivelarsi destabilizzanti anche per lo stesso Stato ebraico. La vera minaccia, per Gerusalemme, è interna: un paese polarizzato, con milizie armate foraggiate dallo Stato, in un clima in cui la violenza è divenuta norma sociale. Una dinamica che in Europa – e in particolare in Italia – abbiamo già conosciuto con esiti ventennali devastanti.

E gli Stati Uniti? Washington oggi appare debole, persino manipolabile da altri attori. Il Presidente americano ha commesso un errore strategico gravissimo: dichiarare che non intende più fare guerre. Una posizione che, seppur apprezzabile dai suoi elettori, annulla l’essenza stessa della deterrenza, ovvero la minaccia credibile della forza.

Il bombardamento sull’Iran mostra invece un altro volto della presidenza: l’uso del potere esecutivo senza consultare il Congresso, una visione cesaristica del potere che, rischia di aprire la strada a una ristrutturazione profonda dell’architettura costituzionale americana, non tanto per Trump quanto per i suoi successori.

Infine, il Vaticano post Bergoglio. Leone XIV ha mantenuto un profilo quasi silenzioso di fronte all’escalation, a differenza del suo predecessore che aveva subito definito con lucidità e lungimiranza lo scenario contemporaneo come “una Terza Guerra Mondiale a pezzi”. Forse ne avrà scrupolo. 

Questi eventi rappresentano un manuale operativo per gli attori emergenti del XXI secolo. Ankara, Baku, Nuova Delhi, Mosca, Pechino: tutti stanno osservando e imparando. La Turchia ha già consolidato la propria presenza in Siria; l’Azerbaigian guarda con rinnovata ambizione all’Armenia; l’India coltiva il sogno di potenza globale; la Russia immagina un’espansione post-imperiale. E la Cina? Ora ha certamente più prospettive per prendersi Taiwan.

Il diritto internazionale appare sospeso (oppure superato e cancellato). A disattenderlo non sono attori marginali, ma gli stessi che lo hanno creato e garantito nel secondo dopoguerra Russia e Stati Uniti in primis. In questo mondo, la forza si afferma senza parole, la guerra si combatte senza guerre, e la pace è ormai solo una parentesi.

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