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La Global Sumud Flotilla, simbolo di resistenza non violenta e solidarietà internazionale, durante la sua missione per la pace a Gaza.

Medio Oriente

Cantano come fanfare, ma senza eco

di Francesco Moriconi

In un tempo dominato dal cinismo e dal calcolo immediato, la Global Sumud Flotilla ricorda che i gesti simbolici e non violenti possono ancora cambiare la storia. Come il pugno di sale di Gandhi, anche una barca può incrinare il muro dell’odio e riaprire la politica alla speranza

9 Ottobre 2025

La firma della pace tra Hamas e Israele — mediata da Donald Trump — ha ricordato al mondo intero che la politica, nel senso più alto, non dovrebbe essere solo contabilità di potere, ma costruzione lenta e dolorosa di una possibilità. Non importa quanto fragile, quante contraddizioni porti con sé: resta un segno, un varco nella parete dell’odio.
Chi aveva guardato con sufficienza la Global Sumud Flotilla – o chi oggi commenta con sarcasmo la pace “improbabile” – appartiene alla stessa stirpe di scettici che da sempre deride i gesti non violenti, i piccoli atti di rottura, i “pagliacci” che credono ancora nella dignità del simbolo.
Eppure, sono proprio quei gesti — apparentemente inutili — che preparano il terreno del possibile.
Il cinismo con cui viene denigrata e ridicolizzata l’iniziativa della Global Sumud Flotilla è figlio prediletto di questi tempi. Tempi nei quali pochi sono capaci di astrazione e di penetrazione della complessità. Tempi in cui ogni evento deve avere una conseguenza economica misurabile, un vantaggio concreto. Un vantaggio non di posizione, non di progresso; un vantaggio istantaneo. A cosa serve quella scuola? A cosa serve leggere? A cosa serve manifestare? È invalsa ormai capillarmente una convinzione disumana: che ogni cosa debba servire. Non allo sviluppo, ma al vantaggio immediato, in termini di economia e prestigio. E si giudica tutto con questo parametro basico, idiota, privo di ogni complessità, istintivamente legato a procacciarsi metri quadri di potere, qualche aperitivo, carte prepagate di stordimento.
La politica, in questo contesto, è sepolta. Non conta che idea di città o di stato abbiano gli amministratori ma solo se tappano le buche e la gente ha più soldi in tasca. Ogni solidarietà è delegata a “preposti”, deresponsabilizzata, fuori dal panorama individuale.
Eppure, la storia dell’umanità è fatta anche da costruttori di pace e di diritto, la cui politica è stata costellata da gesti apparentemente “inutili”, “pagliacciate” secondo i portatori critici dell’equazione “un passo-un vantaggio”. L’edificazione di una nuova casa comune, fatta di diritti condivisi, non passa per le epurazioni di questi giudici da divano, forti dei loro piccoli vantaggi, a disprezzo dell’impegno. Passa per il cambiamento delle loro coscienze attraverso atti che portano avanti ideali di pace, solidarietà e uguaglianza. Queste tre parole non conferiscono immediatamente euro in tasca e nemmeno pane appena sfornato ai derelitti; creano però le condizioni per cui una nuova società non abbia più derelitti.
Avere un ideale e proporlo attraverso la concretezza del gesto e l’astrattezza, la volatilità, il simbolismo, la forza sconvolgente del suo significato. Anche questa è politica.
Chi ha guardato con sussiego la Global Sumud Flotilla ha visto solo una cosa: i pochi aiuti. E che ai Palestinesi non sono arrivati. Dunque, quelli sulle barche sarebbero stati solo dei bambinetti. Ma in un gesto non violento e coraggioso c’è molto di più: c’è una parte di società che dice no alla prevaricazione, che crede nella difesa dei diritti umani, che crede nella pace. C’è la manifestazione di una volontà di cambio di paradigma per costruire una società giusta. Chi pensa che queste cose si costruiscano dal divano o attraverso le trattative di potere sbaglia di grosso, perché il potere ha gli stessi criteri loro: vantaggio di una parte e ritorno economico. In genere, poi, prevaricazione.
Vi racconto una storia, che riguarda un altro “pagliaccio” che con gesti simbolici e non violenti ha liberato una nazione.
Un certo Gandhi, nel contesto dell’India coloniale britannica, organizzò una grande iniziativa simbolica: il 12 marzo 1930 da Ahmedabad, lui e i suoi seguaci camminarono fino a Dandi, 380 chilometri, dove il 6 aprile raggiunsero la costa e il 7 aprile infransero simbolicamente la legge britannica sul sale, raccogliendone dal mare. Un pugno di sale.
Ora vi dirò meglio di come le prese in giro fossero del solito tenore: capirai, un pugno di sale, sai che svolta. Oppure: un’inutile pagliacciata.
Gandhi, per aver violato la legge, raccogliendo un po’ di sale sulla costa, fu arrestato.
Il passo successivo fu il piano di un non-violent raid (raid non violento) sul Dharsana Salt Works, stabilimento per la produzione di sale che si trovava a circa 150 miglia da Bombay. Gandhi, arrestato, lasciò che l’azione fosse guidata da altri.
Essa ebbe luogo il 21 maggio 1930. Circa 2.500 volontari si misero in marcia verso l’impianto dove si trovava una guarnigione di circa 400 poliziotti britannici.
Alla fine del raid non violento furono contati circa 320 feriti e due morti. Le persone arrivavano e, appena i poliziotti attaccavano, si lasciavano colpire e cadevano a terra.
Il paradosso voluto era chiaro: un raid, tipicamente associato a violenza e conflitto, trasformato in uno strumento di resistenza non violenta.
L’elemento centrale è che i volontari fossero disposti a subire il danno — persino la morte — ma non a infliggerlo. La nonviolenza era più potente, nel simbolo, della violenza stessa.
L’azione servì come momento cruciale di riflessione sulla capacità di trasformare un atto di disobbedienza in evento pubblico, visivo e morale, che attirasse l’attenzione internazionale.
Non si trattava più solo di una marcia simbolica verso il mare, ma di un atto diretto contro un’impalcatura coloniale con la sfida visiva e morale di un confronto asimmetrico.
In quell’occasione, fu essenziale l’uso della visualità e della fotografia: l’immagine e la rappresentazione visiva furono fondamentali nella diffusione – o nella distorsione – del messaggio, specie attraverso la stampa illustrata. L’immagine che giunse al pubblico britannico e coloniale venne trasformata, decontestualizzata o minimizzata dai media imperiali; un processo che è stato definito di “re-colonizzazione visiva” del gesto di resistenza.

Marcia del Sale, Ghandi alla testa del corteo non violento
Il Mahatma Gandhi durante la marcia del sale

Gandhi usò il sale per connettere vari registri: il corpo, il territorio, la memoria storica dell’India.
Negli scritti del periodo, egli analizzò le imposte sul sale e le restrizioni coloniali, mostrando come esse fossero una forma di sfruttamento diretto del corpo collettivo.
Il sale, essendo diffusissimo, neutro dal punto di vista religioso, semplice, divenne un simbolo accessibile e capace di unire varie persone al di là di fedi o ceti.
Gandhi collegava l’atto del camminare, della marcia, con un’estetica del corpo — corpo come tela — un’idea che richiama il concetto di ambulatory aesthetic, l’idea cioè che il movimento — camminare, marciare — sia un atto estetico-politico in sé.
Esattamente come navigare verso Gaza.
I giornali illustrati britannici (Graphic, Illustrated London News, Sphere, Daily Mirror) svolsero un ruolo centrale nella diffusione dell’immagine del gesto, ma la interpretarono spesso secondo stereotipi coloniali: Gandhi come santone ascetico, l’azione come simbolica ma inefficace, il popolo indiano come disorganizzato o passivo.
Le didascalie sotto le foto manipolavano il senso vero delle immagini, spostando l’attenzione su aspetti quotidiani o pittoreschi piuttosto che sul carattere politico e di sfida.
In alcuni casi le immagini autentiche furono censurate o i filmati bloccati dalle autorità coloniali.
La politica sulla stampa britannica spesso minimizzava il numero dei partecipanti o enfatizzava il fallimento della marcia.
La sfida di Gandhi veniva in gran parte neutralizzata dalla prospettiva visiva del potere coloniale.
Eppure, il messaggio di Gandhi arrivò al mondo intero— non sempre tramite le foto, ma anche tramite caricature, riviste straniere, stampa non coloniale — e questo contribuì a elevarne lo status simbolico.
Riviste e giornali stranieri contribuirono infine a fare di Gandhi un’icona globale. Time lo mise in copertina definendolo Saint Gandhi. Una delle prime narrazioni che riconoscevano il peso internazionale della marcia fu proprio al di fuori dell’impero.
The Graphic commissionò un disegno satirico chiamato Gandhi the Tail-Salter, che raffigurava Gandhi mentre domava il leone britannico; un’immagine simbolica che fu riprodotta e diffusa ampiamente, trasformando la marcia in uno scenario visivamente potente.
Come sia andata a finire è nella storia.
Andate pure, dal divano, a dire a Gandhi che è stato un pagliaccio. Chi crede negli ideali, nella complessità, nel gesto non violento che afferma il bisogno di pace, di libertà e di uguaglianza, capisce quanto il gesto della Global Sumud Flotilla sia prima di tutto coscienza politica, grido di contrarietà alla prevaricazione.
Perché quando c’è da fare, c’è un solo modo: fare. Ciascuno come può, inseguendo anche i valori che sembrano impossibili da realizzare, quelli che non fanno i conti con la real politik o con la spietatezza del potere.
Ecco perché questi gesti, che ai cinici sembrano fanfare senza eco, in realtà cambiano la storia. Prima nelle coscienze, poi nei fatti. 

"politica" conflitto israelo-palestinese Palestina
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